Li guardo passare davanti a me uno per uno. Ciascun volto entra nel mio obiettivo per qualche secondo, prima di sparire proseguendo lungo la ripida salita innevata. Li osservo attraverso questo filtro, e non riesco a non sorridere.
Siamo nel punto più alto (e più difficile) della nostra traversata della Vallèe Blanche, a pochi metri dall’Aiguille du Midi. Mancano pochi passi all’arrivo, ma sono i più terribili: questo tratto è davvero estenuante.
Una cresta ripida e verticale ricoperta di neve e ghiaccio, solo la presa dei ramponi ai nostri piedi e il supporto della piccozza ci impediscono di cadere da un lato o dall’altro, centinaia di metri di strapiombo con vista su Chamonix ad attenderci.
Tutte le oltre 20 persone che compongono il gruppo mi scorrono davanti come lungo una passerella. Il loro sguardo è teso, concentrato, determinato. Poi sentono il click della mia fotocamera, si voltano e mi guardano sorpresi, accoccolata lì in cima a un cucuzzolo a fotografarli. E mentre il loro sguardo passa da me alla vallata circostante, il sorriso più bello che abbia mai visto indossare a ciascuno di loro gli si allarga sul volto: è il sorriso della vittoria, in una sfida contro se stessi. Quello di chi si emoziona prendendo per la prima volta consapevolezza di aver fatto qualcosa che credeva impossibile.
E io sorrido a mia volta, pensando al fatto che non poteva esserci modo migliore per coronare questa settimana all’insegna del cambiamento. Per coronare 40 anni di Methodos
È stata davvero una Methodos Red Week.
Una settimana rossa anche per la colonnina di mercurio dei termometri che, persino a Courmayeur, ha superato i 30 gradi.
Ma ciò che faceva veramente ribollire questo paese ai piedi del Monte Bianco, era il senso di eccitazione e attesa che aleggiava nell’aria. Decine di persone armate del proprio cartellino “Red People”, che da giorni correvano di qua e di là per le ripide vie di montagna trasportando sedie rosse, cartelloni, microfoni e attrezzatura.
Dopo una sfida di golf, si alza il sipario suiprimi eventi: Red Pages, la presentazione di storie di sfida, di resilienza, di cambiamento. Una ambientata tra le vette di cui siamo al cospetto, con il libro Due Montanari di Maria Teresa Cometto. L’altra, tra le pieghe della storia recente del cambiamento in Italia: è il libro scritto in occasione dei 40 anni di Methodos, The Red Side of Change.
Poi è il momento del culmine della Red Week: il ChangeAbility Forum.
Nella semi-oscurità del cinema di Courmayeur, uno dopo l’altro oratori straordinari prendono la parola sul palco. Dall’istrionico Alberto Carnevale Maffè al parroco del Rione Sanità di Napoli, Don Antonio Loffredo. Da professori come Giorgio Scagliotti a viaggiatrici come Elena Sacco. Da chi non si è fatto fermare dalla disabilità, come Sofia Righetti, a chi come Maurizio Cheli ha scelto il Tetto del Mondo per la propria sfida.
Ciascuno di loro ci racconta la propria storia, ci mostra per immagini cos’è il cambiamento: la capacità di andare oltre, di vedere in modo visionario il mondo e le opportunità. L’abilità “non di saltare più in alto, ma di ridefinire le tecniche del successo”.
E poi, quando le luci si spengono e le voci delle nostre persone risuonano: le storie di cambiamento di M4810, sono pronunciate da due ignoti incappucciati molto scenografici, e pochi sono in grado di trattenere le lacrime.
“Forse i bilanci non si dovrebbero scrivere prima di aver raggiunto la meta. Ma io sto assaporando ogni singolo momento di questo viaggio. Ed è di questo che ti voglio parlare”.
Quando le luci si riaccendono e l’applauso scroscia tra il pubblico, soprattutto da parte delle oltre 60 persone di Methodos che sono venute da tutta Europa per questa Settimana di Cambiamento, siamo tutti arricchiti di qualcosa di unico. Forse è quello che Methodos chiama il “Red Side”.
È ancora con questo spirito che il mattino dopo ci incamminiamo verso le rispettive sfide: i due gruppi sono più grandi e affollati che mai, con tutta Methodos, anche chi solitamente non riesce a partecipare, che è accorsa a Courmayeur.
Il gruppo degli esploratori, come è stato rinominato il secondo gruppo, questa volta conta tra le sue fila anche stagisti e nuovi arrivi, ed è anche un test per capire quanto può essere inclusivo questo progetto, ora che lo stiamo delineando su questo doppio binario. La loro sfida (e quella di tutto il team) sarà proprio rispettare i limiti individuali senza perdere quella visione di crescita e miglioramento continuo a cui spinge il progetto M4810. Percorsi diversi, ma lo stesso obiettivo.
Per farlo, questa uscita porta al rifugio Bonatti e poi al rifugio Bertone, un sentiero di 17km panoramico che, con sempre in vista il Monte Bianco, ci ricorda che siamo tutti impegnati nella stessa sfida. La divisione dei gruppi ha permesso di creare proprio quello che mancava: un passo omogeneo, una sfida stimolante equamente per tutti. Tanto che, alla fine dell’escursione, il sentimento è unanime, e tutti si sentono pronti ad alzare l’asticella, un passo alla volta, insieme.
Al gruppo degli alpinisti, invece, spetta un’altra sfida: la prima traversata di un ghiacciaio.
400 metri di dislivello, da 3.400 a 3.800 metri, potrebbero sembrare una barzelletta visto ciò a cui siamo abituati, ma ormai abbiamo capito come funziona: quando credi che sarà facile è quando più la montagna ti mette alla prova.
Partiamo divisi in gruppi, uniti da quella corda che rappresenta un vincolo ma anche una grande fonte di sicurezza. Questa volta, siamo tutti armati: dai nostri zaini la forma aguzza della piccozza penzola minacciosa.
Mai come in questa lenta progressione sul ghiaccio, che ci porta più vicino ai 4.000 metri di quanto abbiamo mai fatto, ci rendiamo conto di quanto sia affascinante ma insidioso l’ambiente dell’alta montagna. Il ghiaccio si apre accanto ai nostri piedi in epiche crepe di tutte le sfumature dell’azzurro, ferite che possono sprofondare per centinaia di metri e nascondersi sotto invisibili ponti di neve. È bellissimo e terrificante.
E come se ci avesse sentito, la montagna decide a un certo punto di ricordarci la sua forza.
Sento un rombo sordo nelle orecchie, come un elicottero in avvicinamento. Solo che non è un elicottero.
Ci voltiamo tutti all’unisono giusto in tempo per vedere una piccola valanga staccarsi dallo sperone di roccia accanto a noi e iniziare a scivolare con il suo tuono minaccioso verso valle. Verso la traccia che i puntini gialli e blu della nostra spedizione seguono poco distanti. È un momento che ti fa trattenere il fiato, letteralmente. Poi, così come è iniziata, si spegne.
Dobbiamo aver paura? Abbiamo rischiato? È il pensiero che serpeggia tra le varie cordate, come una nuvola nera. Le guide ci tranquillizzano: la traccia è lì e va seguita proprio perché tiene in conto anche questi rischi. Ma per quanto possa essere così, il messaggio è chiaro. La montagna va rispettata, e affrontata con estrema preparazione.
Saliamo e scendiamo, saliamo e scendiamo, sempre con il Monte Bianco che ci osserva in lontananza. Vediamo puntini scuri cercare di arrampicarsi alle sue pendici, e per la prima volta possiamo davvero visualizzare cosa possa significare raggiungere il Tetto d’Europa. E poi arriviamo ad un muro di neve: da qui si sale e basta. Aiguille du Midi, la nostra destinazione, dove prenderemo l’ovovia per tornare verso l’Italia, è a qualche centinaio di metri in verticale sopra di noi.
È chiaro che la montagna ci ha fatto il solito scherzetto: sulla carta sono 400 metri di dislivello, ma in realtà siamo scesi di qualche centinaio e quello reale è più vicino a 800.
Ormai ci siamo però, e abbiamo imparato il trucco: un-due, un-due, un-due...passo costante e lento, senza fermarsi, senza mollare. Mi sforzo di guardare i piedi e di non sbirciare continuamente in alto a quanta strada manchi. Un-due, un-due, un-due.
Forse è proprio per questo che non mi accorgo di quanto sia stretta la cresta a cui stavamo puntando, finché non mi ci trovo sopra. Alla mia destra, il terreno scompare per migliaia di metri fino alla verde Chamonix, a 1.035m. Alla mia sinistra, una lunga scivolata verticale su neve e rocce mi riporterebbe parecchio in basso. Mi aggrappo alla piccozza con tutte le mie forze e spingo. Questo attrezzo piantato nel ghiaccio come un bastone da passeggio modifica il mio passo ipnotico: un-due-tre, un-due-tre, un-due-tre...siamo altissimi!
A pochi metri dal rifugio mi fermo e mi metto in sicurezza per aspettare e far passare le altre cordate: è il luogo perfetto.
Il posto ideale per catturarlo, vederlo dipinto sui volti delle persone.
Sì, proprio lui, proprio ciò che stiamo inseguendo da due anni su e giù per queste montagne: il cambiamento.
L’essenza della sfida, del superamento dei propri limiti.
Quel mezzo sorriso spaventato, sorpreso, incredulo e vittorioso che continuo a vedere in chi mi passa davanti.
Click-click.
Ci ritroviamo tutti a valle, un paio di corse in funivia dopo, durante le quali osserviamo increduli la bellezza del paesaggio e la lunghezza del percorso che abbiamo affrontato.
Come al solito, davanti a una birra e qualcosa da mangiare, le reazioni a caldo all’uscita sono le più diverse.
L’incredulità regna sovrana. Incredulità per la difficoltà dell’ultimo tratto, che ha messo tutti alla prova, anche i più allenati. Incredulità per la paura, l’altezza, il ghiaccio. Ma soprattutto incredulità verso se stessi, per avercela fatta.
“Ho superato un limite che non pensavo avrei nemmeno mai provato a superare”, sussurra Elena scuotendo la testa.
Come sempre, però, al momento del debrief vengono fuori anche le nostre mancanze: ci serve la tecnica. Non ci basta avere una piccozza nello zaino, ci serve saperla usare nel caso di una caduta. Ci serve averlo provato, e aver visto che riusciamo a fermarci. Il coraggio è quella cosa che si trova all’incrocio tra la volontà e la sicurezza nelle proprie capacità.
E poi ci serve consapevolezza. Consapevolezza dei nostri limiti personali, e di dove vogliamo fermarci. Ma per poterlo valutare, serve consapevolezza del percorso. E sta ad ognuno di noi studiare e prepararsi alla prossima uscita, non solo dal punto di vista fisico ma anche mentale. Gli strumenti ci sono tutti.
Come nel Change Management, non ci si può nascondere dietro l’alibi del “non sapevo cosa avrei dovuto fare per cambiare”. È responsabilità di ciascuno, una spinta individuale sulla ricerca di informazioni e sulla preparazione, mentre quella collettiva ci guida e ci sostiene.
Una cosa comunque è sempre più chiara: forse alcuni di coloro che hanno partecipato oggi, se avessero saputo meglio cosa li aspettava, avrebbero scelto di non provarci nemmeno. Eppure tutti, nessuno escluso, ce l’hanno fatta.
E forse è proprio questo l’apice di quel cambiamento che abbiamo osservato da ogni angolatura durante questa straordinaria Methodos Red Week.