È un’altra giornata tersa e limpida quella che ci accoglie quando arriviamo ai piedi della Val Porcellizzo e parcheggiamo sotto un fitto bosco di conifere e rocce appuntite. Comincio a pensare che siamo stati miracolati con tutte queste giornate di bel tempo. E che quando (perché prima o poi, statisticamente, capiterà) la montagna ci mostrerà anche il suo volto ringhiante, fatto di pioggia, vento e freddo, saranno lacrime amare.
Ma per oggi no: oggi godiamoci il sole e cominciamo a camminare, che questa è lunga.
Ci aspettano 4 ore di salita per arrivare al rifugio Gianetti, la nostra meta incastonata ai piedi del Pizzo Badile, a più di 2.500 metri. Il dislivello è di circa 1.300 metri e arriva dopo una lunga estate di pausa, dato che con la Methodos Red Week e la traversata della Vallée Blanche si sono chiuse le uscite di allenamento di M4810 per oltre due mesi.
Questa non è un’uscita qualunque. È un po’ l’inizio della fine, o la fine dell’inizio. L’ultima delle prime uscite, per così dire, sotto vari aspetti.
Settembre 2019 avrebbe dovuto essere una tappa storica nel calendario M4810: il primo Quattromila. Ma, seguendo anche i suggerimenti delle guide alpine di Courmayeur che ci stanno preparando all’impresa, è stato deciso di rimandare le cime più sfidanti al 2020. Dalla primavera sarà un crescendo di allenamento e di prove tecniche che ci dovrebbe permettere di arrivare preparati alla grande sfida del Bianco.
Tra poco infatti sarà il momento di fare la scelta che definirà il futuro di M4810: prenotare il proprio posto in rifugio per provare a partecipare alla spedizione sul Monte Bianco.
Una scelta introspettiva, personale, perché chi lo farà dovrà essere consapevole che l’allenamento di gruppo non basta, e che servirà tutto l’impegno autonomo di cui siamo capaci per portare a termine l’impresa.
Con i suoi pro e i suoi contro, queste consapevolezze hanno trasformato l’uscita che stiamo per affrontare in una specie di ritorno alle origini. Siamo soli, senza guide. Non parliamo di gruppi 1 e 2: qui in montagna siamo arrivati semplicemente noi di Methodos, tutti insieme e tutti uniti. Nessuna distinzione, nessuna divisione in squadre; “si formeranno lungo il percorso autonomamente”, come ci dicono esplicitamente all’inizio della salita.
Penso a come siamo cambiati, a come una frase del genere un anno fa non avrebbe avuto lo stesso significato. Abbiamo attraversato un’evoluzione incredibile, non solo a livello tecnico e fisico ma soprattutto psicologico. Quello che fino a qualche mese fa sembrava essere un ostacolo, il passo diverso dei vari componenti del gruppo, ora è un punto di forza riconosciuto. Sappiamo che i gruppetti si formeranno e che nessuno resterà solo, perché le numerose uscite in montagna ci hanno insegnato che, quando c’è da scegliere tra la vetta e il team, si sceglierà sempre il team.
Siamo in tanti, di nuovo insieme con persone che tra queste montagne non vedevo da un po’, e molte facce nuove. I colori perfettamente abbinati che ci contraddistinguono da mesi grazie all’abbigliamento Salewa, oggi sono “sporcati” da macchie di verde, rosa e arancione: un bellissimo patchwork di vestiti che caratterizza i nuovi arrivati in Methodos, che non potevano, per ovvi motivi, far parte a tutti gli effetti della spedizione, ma si voleva ugualmente includere in qualcosa di così bello e formativo.
Iniziamo a salire nel fitto del bosco e capiamo subito che la cosa è seria. Il sentiero si inerpica su per la montagna fin dai primi metri e comincia subito a mietere le sue “vittime”. Se poi ci si aggiungono una serie di massi granitici su cui saltare, e le pozze fangose lasciate dai ruscelli che scorrono fitti in queste valli, si capisce subito che non sarà un’uscita facile sotto alcun punto di vista.
Il paesaggio in compenso è magnifico, di quelli quasi surreali che caratterizzano questa parte di Lombardia: grandi vallate verdeggianti che si arrampicano verso l’alto, alle cui spalle spuntano, come per magia, giganteschi pinnacoli di granito. Un paradiso per i rocciatori e per gli occhi, nonché un altro ritorno alle origini visto che è stato nella vallata accanto che più di un anno fa abbiamo fatto la nostra seconda uscita.
Passiamo attraverso una stretta porta di roccia su cui, ironicamente, troneggia la scritta in greco “Termopili”. Passiamo greggi di pecore, cascate e ruscelli color ghiaccio. Camminiamo ormai da due ore quando qualcuno indica in alto.
Mi sforzo di capire cosa stia puntando. Vedo una parete di roccia, il Pizzo Badile, ma nulla più. Poi guardo meglio: alla base della roccia c’è… una finestra. È il rifugio, talmente mimetizzato con le sue pareti di pietra grigia che è quasi impossibile vederlo. Ed è lontanissimo e molto in alto. Il fiato mi si blocca in gola mentre calcolo quanta fatica ancora ci costerà raggiungerlo.
Eppure, ormai sappiamo come si fa, no? Un-due, un-due, un-due… un passo dopo l’altro continuiamo a salire. Anche se qui il ritmo è un po’ meno continuo: un-due-salto sulla roccia; un-due-evita la pozzanghera. Difficile tenere il passo così, a furia di salire quelle che sembrano enormi scale di granito posizionate da antichi giganti.
I polpacci bruciano e il silenzio intorno è assordante. Nessuno fiata, siamo tutti concentrati sugli ultimi metri di estenuante salita. Un gruppetto perde il sentiero e si ritrova a fare una specie di terrificante arrampicata libera su un pendio di roccia ed erba, ma nulla può fermarci ormai: il rifugio è così vicino da fare male!
Come sempre, mettere i piedi sul legno e, soprattutto, sedere su una panca, è la sensazione più bella del mondo. Risate, racconti, birre e cioccolata passano di bocca in bocca. Siamo decimati, come era prevedibile, ma in contatto radio con chi ha deciso di fermarsi più a valle: separati ma vicini, ognuno consapevole del proprio livello e della propria scelta. Ogni uscita mette alla prova qualche lato di noi, come singoli e come gruppo.
La discesa, come ormai abbiamo appurato, è la parte veramente tosta per molti. Tra chi ha male alle ginocchia e chi alle caviglie, i passi sono i più diversi… è in discesa che ci ricordiamo quanto nulla si possa dare per scontato. Questo sentiero infame, poi, sembra fare di tutto per metterci in difficoltà, con le sue rocce bagnate che diventano temibili scivoli per scarponi e le pozze di fango melmoso perfettamente mimetizzate.
È proprio mentre chiacchiero con un collega e cerco di saltare un ruscelletto che… PLOFF! Una gamba improvvisamente mi sprofonda nel terreno, e mi ritrovo a terra. Guardo dove prima c’era il mio piede e mi accorgo che sono scomparsa fino al ginocchio in una fanghiglia marrone. Viene fuori tutto il mio lato femminile mentre, imprecando, estraggo la gamba e mi rendo conto che… non era solo fango, purtroppo.
Percorro i successivi chilometri verso il fiume circondata dalle risate del resto del gruppo e da una gran puzza di letame!
Un po’ per necessità e un po’ per piacere, quando arrivo in prossimità del ruscello mi tolgo giusto la maglietta e mi lancio testa inclusa nell’acqua azzurro-ghiaccio, con pantaloni e scarponi luridi ai piedi. È gelida ma bellissima, come solo un ruscello di montagna può essere. Sento i morsi del freddo che massaggiano i polpacci affaticati e le caviglie stanche.
E non sono l’unica coraggiosa: dal CEO allo stagista, è un attimo perché un gruppetto di persone in mutande si ritrovi a sguazzare tra le rocce. Tutti tornati bambini, a prescindere dall’età e dalla seniorship, come deve essere in un progetto del genere!
Quando a fine giornata ci ritroviamo a valle tutti insieme, vedo un sacco di sorrisi. Paradossalmente, soprattutto tra chi non ho visto in vetta. “È la prima volta che non arrivo in cima, e pensavo che mi avrebbe fatto una gran rabbia. Invece mi sono goduta tantissimo questa uscita! Ogni volta è una scoperta, esteriore e interiore”, racconta Sabrina mentre, seduti sull’erba, facciamo il debrief.
Un altro volto incredibilmente sorridente è quello di Lilli. “La mia parola di oggi è fiducia”, racconta. “Fiducia nel gruppo, ma anche fiducia nel fatto che posso ancora far parte di questo progetto, in qualche modo”. Questo tipo di sentiero l’ha messa a dura prova, ma il suo sguardo racconta una storia di sfide vinte. Il tema della vetta, del traguardo finale da raggiungere, è fondamentale. Ma non è l’unico. E’ importante anche spingere i propri limiti un po’ più in là… un po’ oltre ciò che si pensava di poter fare. E lei questo lo insegna a tutti fin dalla prima uscita.
Non dobbiamo avere paura del Bianco o della sfida. Sappiamo che, la “scuola di Change” di M4810 è dura, lunga, sfidante. Ma dobbiamo guardare con positività al cammino percorso fino a oggi e a quello che ancora ci aspetta. Insomma non ci sono bocciati né rimandati. Il diploma è in vista, e se diamo il massimo raggiungeremo tutti l’obiettivo. Ognuno secondo i propri orizzonti, ma pur sempre insieme.
Da qui in avanti, ogni passo in più sarà tanto personale quanto di gruppo.