Ormai non sento più le dita delle mani. Cerco di muovere le braccia come ci hanno insegnato le guide. Annaspo in cerca di aria mentre cerco di non perdere il passo.
Non ce la faccio, arriverò congelata, lo sento. Non ci arriverò proprio anzi.
È come se fossi uscita da quella meditazione contemplativa che mi faceva sentire la fatica, il dolore e la paura come elementi distanti di un presente altrui. Ora invece sono qui, e sento distintamente tutte queste cose che mi attanagliano il corpo.
Ma chi me l’ha fatto fare? Ma cosa ci faccio qui? Cosa ci è venuto in mente?
Sprofondo in questa spirale di pensieri negativi - basta, non ne posso più. Ora mi fermo, torno indietro.
Non riesco ad articolare questi pensieri, ma Edy sembra intuirli e tira la corda un po’ di più. “Dai, forza”, mi dice; “Siamo quasi alla Capanna Vallot”.
Che diavolo è la Capanna Vallot? Mi immagino una meravigliosa struttura come era Capanna Margherita, il piccolo ma accogliente rifugio in cima al Monte Rosa, con un ragazzo sorridente pronto a servirmi un tè caldo e il profumo di pizza appena sfornata nel corridoio.
Ma so che si tratta di un miraggio degno del più caldo dei deserti: non esiste nulla di simile sul Monte Bianco. Solo freddo, ghiaccio e neve.
Miraggi a quattromila metri
E infatti.
Siamo dentro una specie di scatola di metallo, non c’è niente se non delle panche ricoperte di una specie di moquette nera e un odore ambiguo di umanità e sogni infranti. Altro che pizza.
Ma c’è la possibilità di sedersi su qualcosa che non sia neve, di mettere del cibo sotto i denti e di smettere di sentire freddo…tanto basta, è già salito a mio secondo posto preferito nel mondo (la Capanna Margherita rimane al primo, non c’è storia).
E poi c’è David, con Nico la sua guida. Sono già un po’ più scongelati di me, e questo promette bene.
Mentre stiamo qui a riprendere la sensibilità nelle dita, mano a mano entrano dalla porta altri ghiaccioli: Martina, Giuseppe, Filippo, Marco il fotografo, e le loro guide Arnaud, Luca e Rudy. Scambiamo quattro chiacchiere, sorsi di tè caldo (fortuna i thermos) e scaldini per mani e piedi come fossero di contrabbando. E pian piano ci torna un barlume di forza. E la voglia di arrivare in cima.
Quando stiamo per uscire di nuovo nel freddo dell’alba, sento quel poco di coraggio che mi aveva colto dentro la scatoletta che sopra i 4.300 metri chiamano “capanna” abbandonarmi…
Ma poi vedo la prima luce rossa del sole illuminare l’orizzonte, e d’improvviso sento che ce la possiamo fare.
Le montagne intorno a noi sono colorate di turchese, e le striature di nuvole nel cielo ci regalano un arcobaleno di toni pastello che nemmeno il miglior quadro impressionista può sfoggiare.
Ricominciamo a salire. E intendo proprio salire.
Passiamo sotto enormi formazioni di ghiaccio, le cui striature di tutti i toni dell’azzurro sembrano disegnate con il pennello.
La traccia si inerpica su creste sempre più strette, tanto che non posso più guardarmi intorno: in una mano la piccozza come un bastone, nell’altra il bastoncino da trekking, devo ricorrere a tutta la mia concentrazione per andare dritta e non sbandare. A destra e a sinistra c’è solo il vuoto, e non voglio scoprire quanto servirebbe il mio guinzaglio se scivolassi.
“Non cadi”, aveva detto Arnaud. In fondo so che aveva ragione. E così cammino: kalipè.
La cresta torna in piano, e vedo un’altra salita davanti a me, e una vetta.
“È quella?”, chiedo a Edy, la voce che tradisce speranza e disperazione.
“Non ancora”, mi risponde.
Superiamo la finta vetta, siamo di nuovo sul piano, e di nuovo chiedo: “ti prego, dimmi che è quella…”. Ma so già la risposta. Ancora no.
Che montagna bastarda, solo la vetta più alta d’Europa poteva permettersi di giocare così con i sentimenti delle persone, ed essere comunque venerata e desiderata da tutti gli alpinisti. Continuiamo a camminare.
Ed ecco che in questi momenti entra in gioco una nuova strategia: non guardare più in alto, ma concentrarsi solo sui propri passi. Uno dopo l’altro, uno dopo l’altro. Non c’è niente a parte la cresta sotto gli scarponi.
Per un po’ sembra funzionare, ma poi non resisto più e sbircio.
Siamo alla fine dell’ennesima cresta, che ormai penso sia solo un’altra illusione di vetta, a questo punto a dire il vero penso che la cima del Monte Bianco sia una leggenda.
E invece, davanti a me vedo delle persone ferme. Non sono in fila indiana. Non stanno camminando. Si scattano foto.
4810
Oddio…non ci credo.
“È quella…”, mormoro, e questa volta non è una domanda.
Sento qualcosa di potente montarmi dentro ed emergere dagli occhi. Lacrime. Sto piangendo, anzi proprio singhiozzando, che non è una cosa facile quando cammini a 4.810 metri. Ma ormai mi muovo in apnea, l’ossigeno non mi serve nemmeno più, l’adrenalina scorre nelle vene come fuoco: ce l’abbiamo fatta! Ci siamo! Siamo sulla cima del Monte Bianco!
Abbraccio Edy, Filippo, Marco, David, chiunque mi capiti a tiro…siamo un groviglio di braccia ricoperte di strati di vestiti, lacrime e urla. Non so se è più pazzesca la vista o l’energia che esplode come un vulcano.
Mi fermo a guardarmi intorno e mi sorprendo a pensare quanto sia scontato quello che sto pensando: ne valeva la pena. Ne vale la pena solo per questo. Lo dicono tutti, e quando sei a valle sembra vero, ma poi mentre sali non è più tanto facile crederci…eppure lo è, per questo breve ma intensissimo momento è valsa la pena di tutto.
Filippo tira fuori dallo zaino la bandiera che ha già svettato sulla quarta cima più alta d’Italia, il Gran Paradiso, con Methodos e Digital360. Non potrebbe esserci luogo più iconico di questo per farla sventolare. Una vista veramente a 360 gradi, come quella che questo gruppo vuole avere nella consulenza aziendale e nel mercato.
Questa cima e questa acquisizione sono figlie dello stesso processo, quello di consolidamento di un mindset che da anni li porta a darsi obiettivi molto ambiziosi, che qualcuno direbbe impossibili…finché non ci riescono.
In fondo M4810 serviva proprio a questo: era l’emblema del pensare in grande, dell’andare oltre i propri limiti, del crederci fino a realizzarlo, fino ad arrivare sulla cima più alta di tutte.
“Grazie Methodos! Play bigger!” urla Filippo nel vento, non so con quale fiato abbia ancora in corpo. E mentre li guardo tutti con le braccia alzate in segno di vittoria, so per certo che questa non è una destinazione ma solo un nuovo inizio. Chissà cosa ci sarà in questo nuovo motto, che dà il nome alla strategia per i prossimi anni. Più grande del Monte Bianco, e con a fianco una realtà come Digital360…c’è da aver paura!
Poi Filippo tira fuori dallo zaino un’altra bandiera. Cala il silenzio, mentre il viso di Antonio che fruga nel suo zaino rosso marchiato M4810 domina la cima del Monte Bianco.
Il suo sorriso contagioso e la sua ironia ci avevano accompagnato nelle prime uscite del progetto, e anche il suo essere un po’ fuori dagli schemi e così squisitamente lui, tanto da perdersi nella discesa dal Monte Disgrazia in Val Masino e regalarci i primi attimi di suspance e risate di sollievo.
Un brutto male l’ha portato via e non gli ha permesso di arrivare quassù con le sue gambe. Ma mentre il suo viso sventola a 4.810 metri, è ovvio che ci è arrivato con le nostre.
Così come sono con noi tutte le persone che hanno creduto in questo progetto. Quelli che lo hanno amato o odiato, quelli che hanno fatto giusto un paio di uscite e quelli che ci sono stati fino alla fine, quelli che non ci sono perché non potevano e quelli che semplicemente hanno scelto di partecipare in altro modo.
Sono tutti qui.
E, miracoli della tecnologia, visto che a quasi 5.000 metri prendono quattro tacche di 4G, riusciamo anche a inviare le foto della vetta in tempo reale a chi tifa per noi da casa.
Ci siamo tutti. È una bellissima festa quassù.
È solo l’inizio
Quasi a volerci ricordare che il nostro tempo in vetta è limitato, che momenti del genere sono speciali proprio perché effimeri, si alza un vento gelido e pungente che ci invita a scendere. Abbiamo avuto una decina di minuti paradisiaci sul tetto d’Europa, baciati dal sole che risveglia le vallate sotto di noi e senza una bava di vento. Più di così non potevamo chiedere.
E allora ce ne andiamo felici, lasciamo la vetta ai prossimi alpinisti che la conquisteranno, regalando “bonjour” sorridenti a tutti quelli che in salita rantolano in carenza di ossigeno.
La discesa è una benedizione, un perdere quota velocemente mentre pensi a quanto hai sofferto per conquistarla. Finché non diventa una maledizione, un dolore ai piedi e alle ginocchia, un continuo “quanto manca?” che sembra prolungarsi ancora di più di quella dannata vetta.
Ma ormai ci siamo, non c’è più niente da conquistare, almeno non oggi. C’è solo da scendere, e anche quando pensi di non farcela più la gravità per fortuna aiuta nell’impresa.
Arrivati a valle e tornati dal lato italiano del Monte Bianco, stravolti ma felici, c’è un’altra sorpresa ad attenderci: un autobus pieno dei colleghi Methodos che abbiamo portato con noi virtualmente in cima al Bianco ci aspetta a Courmayeur.
Ad un bar che si chiama 4810, ovviamente!
Indossano delle magliette bellissime, perfette per l’occasione. Le scritte sulla schiena ci ricordano tutte le nostre tappe, dal Monte Fallère a Punta Helbronner, dalla Vallée Blanche alle ultime uscite di quest’anno. Ma sono le scritte sul davanti quelle speciali: nomi, tanti nomi.
Tutti i protagonisti di questa spedizione, alcuni dei quali hanno trovato posto tra queste pagine virtuali, sono quelli che l'hanno abbracciata nel tempo, che c'erano e non ci sono più, che volevano esserci ma non potevano, che ci sono stati in mezzo a mille difficoltà, che si sono sfidati, che hanno cambiato stile di vita, che hanno iniziato a fare sport, che hanno smesso di fumare, che hanno acquisito la forza di affrontare altri tabù, che hanno spostato il proprio limite un po’ più in là, che hanno scoperto di essere un po’ diversi da come pensavano di essere.
Perché il Monte Bianco per noi dal 2017 non è a 4.810 metri, ma è e sarà ovunque il nostro sguardo e la nostra mente vedranno una sfida apparentemente insormontabile e risponderemo "perchè no?".
Mi guardo intorno, in questa grande festa, e mi chiedo se due anni fa saremmo stati pronti, se ce l’avremmo fatta. Probabilmente sì, mi dico: eravamo più allenati, venivamo da tante uscite preparatorie, il gruppo era più numeroso e più preparato. Il lungo periodo del Covid ha messo uno stop a tutto questo, e ci siamo ritrovati due anni dopo a ricominciare a salire in qualche modo “monchi”, incompleti. Eppure questo tempo ci ha anche dato la possibilità di sposare il progetto, di interiorizzarlo, di cambiare stile di vita…forse non tutte le persone che oggi indossano questa maglietta saranno arrivate a 4.810 metri di altitudine, ma essere al bar 4810 basta e avanza. Con il corpo, con il pensiero, con qualunque pezzo di sé abbiano contribuito al progetto…è una gigantesca piramide umana quella che ci ha portato su.
Un processo fatto di scelte e di persone che ci ricorda che possiamo controllare solo quello che proviamo e facciamo, non possiamo prevedere le situazioni esterne, né arginare tutti i rischi, e men che meno aspettare un momento giusto che mai verrà.
Possiamo solo prendere quello che abbiamo imparato da questa esperienza, che trascende la cima in sé e diventa metafora della vita e del Change Management, e applicarlo a qualunque Monte Bianco ci si parerà davanti - che sia il Coronavirus, un nuovo progetto o l’inizio di qualcosa che ancora non sappiamo nemmeno cos’è.
Il Monte Bianco non è un traguardo ma un punto di partenza. Da qui inizia la nuova esperienza in Digital360, che parte dalla cima più alta d'Europa per percorrere tracce impensabili prima, e straordinariamente stimolanti per tutti noi.