Ci diamo appuntamento al solito parcheggio di Milano pronti per la partenza in autobus verso un’altra uscita M4810. Questa volta di due giorni: il primo cammineremo dai 1700 metri di La Visaille (sopra Courmayeur) ai 2200 del Rifugio Elisabetta, il secondo invece da lì alla nostra prossima vetta: il Petit Mont Blanc. O almeno, così crediamo.
Siamo partiti da pochi minuti con il bus quando Martina richiama l’attenzione di tutti per un annuncio importante: la nostra meta è cambiata.
Le guide hanno aspettato fino all’ultimo per verificare le condizioni, ma in quest’anno particolarmente strano, che ci ha fatto sudare l’estate più del dovuto, c’è ancora troppa neve sul Petit Mont Blanc e l’uscita non sarebbe sicura.
Dobbiamo ripiegare su qualcos’altro. Qualcosa che sia altrettanto sfidante. La nuova meta si chiama Punta Lechaud.
3.127 metri di montagna, contro i più di 3.400 del Petit Mont Blanc. Più d’uno tra noi tira silenziosamente un sospiro di sollievo, all’idea di non dover ripetere un dislivello come quello della Grigna. Mille metri di salita sembrano un buon compromesso. Ma qual era la parola dell’ultima volta? Sì, “relatività”. E quello che non avevamo considerato è che il dislivello è solo una delle sfide. L’altra è la lunghezza dello sviluppo, e in questo caso conta parecchi chilometri.
Ci troviamo con gli altri all’arrivo dell’autobus, a La Visaille: chi è arrivato in macchine chi era già lì. Sì, perché queste giornate segnano l’inizio della Methodos RedWeek, una settimana dedicata al cambiamento, allo sport, alla voglia di riunirsi e raccontare storie che meritano di essere raccontate. E quale modo migliore di tagliare i nastri di partenza di un simile evento se non con un progetto come M4810, che è la concretizzazione del Change Management?
Arrivati al rifugio, tra chiacchiere, birre e cibo locale la serata trascorre serenamente. Siamo in tanti, questa volta, ma domani non saremo tutti insieme a cercare la vetta.
C’è stato un nuovo cambiamento. Un’evoluzione, quelle scelte difficili ma necessarie, che sono l’emblema della capacità di adattarsi per raggiungere un obiettivo.
È chiaro ormai che non tutti vogliono o possono provare concretamente a scalare il Monte Bianco. Il tema dei limiti e del loro superamento è sempre molto delicato, e sappiamo che voler portare tutte le persone di Methodos “in cima” sarebbe una forzatura e non un processo di crescita. In fondo, ognuno ha il proprio Monte Bianco di riferimento e M4810 ci spinge a cercarlo e conquistarlo, qualunque esso sia. A 4.810 metri di altezza o a 3.000. E allora?
Allora si compongono due gruppi. E la sfida raddoppia. Sia perché da qui in poi ci saranno due ordini di priorità da tenere in considerazione, due tipologie di passi, due attitudini al percorso. Sia perché dovremo riuscire a mantenere il team unito, lanciato verso un obiettivo unico, anche se i sentieri si separeranno.
E in questa uscita, le strade si divideranno quando arriveremo al Colle di Chavannes, metri 2.603.
Partiamo tutti insieme in un’alba dorata, divisi in cordate “psicologiche”: anche se ancora non ci leghiamo, siamo uniti indissolubilmente al nostro gruppo di 4-5 persone. Il mood è vario, come è prevedibile dopo una notte in rifugio in quota: pochi hanno dormito bene e si sentono freschi e riposati, quasi tutti arrancano in silenzio sulle prime salite, Sara si sente addirittura la febbre.
La guardo camminare davanti a me e mi sento un po’ ammirata e un po’ preoccupata: stimo la sua voglia di farcela, di non lasciarsi fermare, ma ho anche paura che possa mettersi in condizioni di rischio. Cosa succederebbe se a un certo punto non ce la facesse più? Come ritornerebbe giù, dato che le guide sono contate per il numero di cordate?
Trattengo i miei pensieri e continuo a camminare. Ci lasciamo alle spalle il Colle di Chavannes, il secondo gruppo è una serie di puntini gialli e blu che sale sul lato della montagna. Noi continuiamo dritti, loro vireranno verso destra per un giro ad anello a quote più contenute. Penso con un sorriso a quante storie in più sentiremo durante i debrief, ora!
Continuiamo e continuiamo. La roccia lascia sempre più il passo alla neve, e i nostri scarponi ramponabili Salewa, anche se meno comodi di quelli da trekking che utilizziamo di solito, si rivelano presto essenziali nella loro impermeabilità.
Continuiamo e Punta Lechaud ancora non si vede. È sempre nascosta dietro un altro colle, un’altra vetta. Sembra impossibile, guardandoci indietro, quanta strada abbiamo percorso dal Colle di Chavannes! Il dislivello è poco, ma i chilometri macinati tanti.
La stanchezza inizia a farsi sentire e la neve rende più ardua la sfida. Attraversiamo vari nevai con pendenze considerevoli, le guide li attrezzano con corde fisse perché possiamo passare in sicurezza. Ma nonostante la corda, quando guardi in basso e vedi una scivolata di decine di metri su neve e ghiaccio culminare in un salto di roccia di qualche centinaio, il respiro ti si blocca in gola.
“Non vi fermate, un piede dopo l’altro, guardate avanti e non in basso”, ci spronano le guide. Certo, è facile a dirsi. Affrontare qualcosa che ci fa paura è sempre questione di un passo alla volta. Il problema è fare il primo.
Eppure, con la forza del gruppo e quel senso di magica sicurezza che la corda promette, passiamo tutti. Cercando di non pensare al fatto che dovremo fare la stessa cosa in discesa, poi.
Eccola, finalmente: Punta Lechaud! Ora è in vista. Ma quando le guide ce la indicano, ci cade la mascella. Come, laggiù? Ma è lontanissimo! Ancora due ore di cammino, ci dicono. E le gambe si fanno sempre più pesanti.
Continuiamo a salire e ora è davvero verticale. Procediamo a zig-zag, per lunghi tornanti, passo costante e respiro regolare. Un-due, un-due, un-due. Mentre procediamo, notiamo un puntino blu che si è fermato. Lo raggiungiamo presto, è Sabrina: dice che non ce la fa più, che non proseguirà. Ad ogni gruppetto che arriva, qualche membro si stacca dalla cordata e si unisce a lei, ansimante e abbattuto. Arnaud, la guida di Courmayeur al quale ci siamo affidati per costruire questa spedizione, si ferma con loro per riportarli a valle.
Sento una fitta di dispiacere (per loro): siamo così vicini. Eppure la parte difficile è ancora tutta da fare, quindi li capisco. Sara resiste: vuole arrivare in cima, ma la vedo sempre più pallida. Io stessa comincio a sentirmi la testa dentro un palloncino bianco, dove non c’è altro che la fatica e il ritmo dei miei passi sulla neve. Una sorta di ipnosi: un-due, un-due, un-due.
Il tempo sembra non trascorrere più, eppure ci muoviamo. E a un certo punto arriviamo proprio sotto Punta Lechaud. La guardiamo inermi. Manca così poco ma...è talmente verticale! Un muro bianco.
Mangiamo qualcosa tutti insieme, ci riposiamo, e dopo quello che sembra sempre troppo poco tempo, le varie cordate calzano i ramponi, si legano e si avviano verso la vetta.
Prima di ripartire, butto uno sguardo stanco verso valle e...c’è qualcosa che si muove. Puntini colorati che salgono lentamente legati tra loro, si stagliano nitidamente sullo sfondo bianco. Sono Sabrina e gli altri!
Facciamo partire un applauso di gioia e incitazione, davanti a questa scena che ci ricorda quanto i nostri limiti siano troppo spesso più mentali che fisici. Quanto trovare il proprio passo sia importante per arrivare lontano.
L’ultima salita prima della vetta è sempre la più dura. Sembra essere una regola della montagna, come della vita. Quasi fosse un ultimo test della tua forza di volontà, anche dopo che credi di aver già dato tutto.
I ramponi penetrano nella neve e nel ghiaccio e ci tengono ancorati come ragni alla montagna. Poi il bianco si trasforma in nero, e continuiamo a ramponare sulla roccia. Ci siamo quasi.
Punta Lechaud è proprio...una punta. Uno sperone di roccia che si affaccia verticale su uno strapiombo di centinaia di metri sull’altro lato. Non si può guardare in alto perché ci si scoraggia, né in basso perché vengono le vertigini. Si può solo guardare i propri piedi. Un-due, un-due, un-due.
E poi, eccoci! In cima, a 3.127 metri. In vista del Monte Bianco, che ormai è una costante delle nostre uscite, come a ricordarci che ovunque andiamo lui ci guarda e ci mette alla prova.
Il tempo di riposarci un po’ in cima e sentiamo rumore di ramponi sulla roccia: è l’ultimo gruppetto che arriva, quelli che avevano pensato di fermarsi. Che pensavano di non riuscirci. E che poi invece, con il proprio passo, ce l’hanno fatta.
Siamo tutti in cima.
È ora di scendere.
Comincio proprio a convincermi che la vera difficoltà sia questa, non la salita. Le membra stanche fanno un ultimo, epico sforzo, ma la forza di gravità incombe su di noi e ci spinge a cadere e scivolare sulla neve.
Ci sono momenti di panico, in cui qualcuno scivola di qualche metro a valle con un urlo, finché non riesce a fermarsi tra i sospiri di sollievo generali.
È allora che le guide hanno un’idea geniale: cambiare la nostra percezione della paura. Trasformarla in gioco.
Ed è così che in un attimo, seguendo le loro indicazioni sulla sicurezza, ci ritroviamo a scendere...slittando sul sedere. E urlando, ma questa volta di gioia. La gioia tipica dei bambini che provano qualcosa di nuovo, ma anche degli adulti quando capiscono che non dovranno camminare per 1000 metri in discesa!
Siamo tutti uguali, senior manager e stagisti, freelance e dipendenti: tutti scivoliamo sulla neve e ci divertiamo come matti. Non è che forse è questo il segreto dei team di successo?
Dopo infinite scivolate e tanti altri passi, ci ritroviamo tutti finalmente a valle. C’è anche il secondo gruppo, che ci racconta del proprio trekking. Più lungo e impegnativo di quanto si aspettassero; non esente da avventure e momenti di eroismo degni di essere raccontati, come quando Andrea è scivolato su un nevaio e ha trasformato un bastoncino in una piccozza per fermarsi.
Arriva anche Sara, pallida e debole: ha resistito fin quasi alla fine, ma quando siamo tornati al Colle de Chavannes febbre e stanchezza hanno avuto la meglio. Si è faticosamente trascinata fino a valle, ma a questo punto si rende conto di aver rischiato, per sé e per gli altri. E ci poniamo un altro dubbio: quale deve essere il compromesso tra il desiderio personale della vetta, e il sacrificio per non mettere in pericolo se stessi e la missione del resto del team?
Siamo stremati. Per la maggior parte delle persone questa uscita è stata fisicamente meno impegnativa della terrificante Grigna, ma tutti comunque concordiamo su una questione. O meglio, una domanda: ma questo, rispetto al Monte Bianco, che cos’è?
Qualcuno ci risponde, scherzando ma con un fondo di verità: l’antipasto.
Non è consolante, no. C’è ancora tanta strada da fare, è fuori dubbio. In senso sia metaforico che non.
Ma la verità è che, un anno fa, non avremmo nemmeno potuto pensare di essere qui.
Un anno fa di questi tempi affrontavamo la nostra prima cordata al Mont Fallère.
Un anno fa, solo scendere dalla zona del Monte Disgrazia ci aveva causato problemi, come gruppo e come singoli.
Tra un anno, saremo pronti per il Bianco?
Non lo so, ma come ci ricorda Filippo, in ogni buon progetto di Change “non devi guardare dove devi arrivare, ma da dove sei partito”. Prendiamo consapevolezza dei passi in avanti che abbiamo percorso e del fatto che, continuando a camminare, arriveremo più in alto che mai.