Quasi mi dimentico la prima regola della montagna: guardare dove si mettono i piedi.
Dopo un paio di cadute semi-rovinose e una gamba che sprofonda fino al ginocchio in una pozza di melma marrone non meglio identificata, capisco che devo smetterla di guardarmi intorno con la bocca spalancata di meraviglia.
Ma è così difficile: le montagne in questa vallata laterale alla Val Masino, la Val Porcellizzo, sono a dir poco incredibili. Picchi e pinnacoli di roccia che emergono appuntiti dalla terra come denti di antichi giganti continuano a richiamare la mia attenzione.
“Mi sembrano quasi le Dolomiti!”, dico a un certo punto tra me e me, quando l’ennesimo sperone scuro emerge da dietro un avvallamento.
Mi risponde uno sbuffo di disaccordo alle mie spalle.
“Ma no, non c’entra niente con le Dolomiti! Quelle sono composte da dolomia, una roccia sedimentaria carbonatica a differenza del granito che è vulcanica; qui abbiamo una morfologia completamente diversa…”.
Mi volto, sorpresa da questa lezione inaspettata, e sorrido quando mi accorgo di aver inavvertitamente proferito un’eresia davanti alla persona sbagliata, quella più tecnicamente preparata della nostra spedizione: Matteo.
Gli chiedo spiegazioni, dato che quello che ha detto per me potrebbe tranquillamente essere arabo, e con la pazienza e la competenza del professore universitario mi snocciola una serie di informazioni che solo un vero appassionato di montagna può conoscere; uno che da sempre si è dedicato non solo a raggiungere le vette, ma anche a studiarle.
Matteo è un vero alpinista, sotto ogni punto di vista.
La montagna è la sua grande passione da quando era bambino, mi racconta. Da quando ha memoria, osserva le cime e le valli con occhi sognanti, e da quando il suo corpo gliene ha dato la possibilità, le percorre in lungo e in largo.
È l’unico, tra tutti noi, a sapere veramente cosa significhi ciò che stiamo facendo, da un punto di vista sia fisico sia tecnico. A saperlo davvero, proprio perché lo ha provato sulla propria pelle.
Sì perché questo, per Matteo, non è il primo appuntamento con il Bianco.
Si sono già incontrati e sfidati anni fa, nella realizzazione di uno dei suoi più ambiziosi sogni infantili.
“Lo ricordo come se fosse ieri, con la stessa emozione. Avevo 22 anni, ero poco più che un ragazzino. Ricordo la partenza all’una di notte, la neve che scintillava al buio. Ricordo l’emozione fortissima raggiungendo la cima, alle 8 del mattino, e capire cosa significa davvero essere sul Tetto d’Europa. E poi ricordo quella sfiancante, lunghissima, infinita discesa per tornare a valle, camminando fino alle 5 di pomeriggio. È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita, ma anche uno dei più faticosi. Un ricordo che contribuisce a farmi temere che, l’anno prossimo, non proverò a rifarlo…”.
Trasalisco sentendo queste parole. Questa proprio non me l’aspettavo.
Se c’è una persona che davo per certa su quella cima, con i suoi occhi color del ghiaccio sorridenti e pronti a incitarci tutti, era Matteo.
Proprio in virtù delle sue esperienze passate, ho dato per scontato che fosse un fervente sostenitore del progetto.
“Certo che lo sono! Il progetto è visionario, il parallelismo con il change management e con il nostro lavoro è evidente, la sfida è grande.
Ma ogni cosa ha un suo tempo e, sicuramente, per le mie ginocchia quel tempo è passato da un po’.
Ho rotto il crociato tanti anni fa, ma me ne sono sempre disinteressato e ho continuato a fare ciò che amavo, andare in montagna e fare alpinismo, facendo affidamento sull’altra gamba. Solo che, dopo un po’ di anni di lavoro, anche il compagno ha presentato il conto.
Mi hanno detto che dovrei darmi al nuoto, eppure eccomi qui. Però si può tirare la corda solo fino a un certo punto, se si esagera ci sono conseguenze amare”.
Osservo il suo ginocchio incorniciato da un vistoso tutore azzurro, quello che gli ho sempre visto indossare a ogni uscita. Si vede che fa fatica, specialmente in discesa, ma non l’ho mai visto mancare una vetta, nonostante questo.
E infatti ci ritroviamo su, tutti insieme anche questa volta, lui compreso.
Non si vedono i suoi occhi chiari, però, nelle foto di gruppo. Quando ci raduniamo per farle, lui si è già avviato verso valle. La discesa è il suo tallone d’Achille, e la vuole prendere con calma.
Lo ritrovo qualche centinaio di metri più in basso, in una situazione apparentemente sconveniente con Luigildo. Seduti per terra, uno a gambe divaricate, davanti all’altro che gli tende i muscoli. Qualche foto e qualche battuta dopo, tutti proseguono verso valle e io mi attardo indietro con loro.
“Terribile”, mi spiega Matteo, mentre riprendiamo a camminare; “sto soffrendo di crampi da morire. Non riuscivo più a camminare, meno male che Luigildo mi ha rimesso in sesto o non avrei saputo come tornare giù”.
Proseguiamo la discesa, lentamente ma chiacchierando con leggerezza della montagna, della vita e dell’ambizioso progetto che è M4810.
Parliamo del Monte Bianco, della sfida che ci aspetta e di chi si senta all’altezza e chi meno di affrontarla, e di cosa ancora ci manchi per essere pronti.
“Una volta mi è capitato di portare un gruppo di manager di un’azienda nostra cliente a fare un’uscita di team building un po’ particolare, rafting su un fiume”, racconta Matteo.
“Una cosa mi ha colpito molto in quell’occasione: prima di cominciare la discesa, le guide hanno fatto saltare una per una le persone in acqua, perché cercassero di arrivare fino a riva.
Non era un punto particolarmente violento, l’acqua sembrava tranquilla, e così si sono tuffati.
In pochi secondi la corrente li aveva già trascinati lontani, e arrivare a riva era stato per tutti una sfida quasi più intensa del rafting stesso, al quale si sono dedicati poco dopo. Ma era fondamentale scoprirlo prima di trovarsi nella condizione di pericolo reale, così da essere preparati a gestirlo.
È una cosa molto importante, tanto nel rafting, quanto in montagna, quanto ancora nel lavoro e nel change management: la gestione del rischio.
La tolleranza all’errore in montagna è molto, molto diversa, soprattutto rispetto a quella che ci possiamo ragionevolmente permettere in un progetto di innovazione e sperimentazione. E questo è un elemento molto interessante, se compari M4810 con qualunque altro progetto di Change.
Il tema del rischio nelle organizzazioni ha una duplice valenza: nelle attività “ordinarie” le aziende hanno ridotto al massimo la possibilità di errore cercando di standardizzare il più possibile l'execution, per non sprecare energie a risolvere problemi.
Quando però si parla di "sperimentazione", allora devi cercare di fare qualcosa di nuovo, di stra-ordinario: in questo campo DEVI concederti dei margini di errore, altrimenti non riuscirai mai a innovare.
Sono due modi diversi di intendere l'errore. Persino il fallimento è contemplato in questo contesto, purché si apprenda.
Ecco, qui è il paradosso di M4810: in montagna si deve pretendere un approccio più simile al primo tipo. Bisogna ridurre l'errore al minimo perché ci sono sempre delle variabili impreviste, i cosiddetti rischi oggettivi che non si possono in alcun modo evitare.
Dall’altra parte però, M4810 è stra-ordinario, è pura innovazione, ricerca sul campo, sperimentazione. Un laboratorio di Change Management ad alta quota. E quindi, perché possa riuscire, dobbiamo comunque concederci dei margini di errore.
Vedi, la difficoltà? L’equilibrio tra questi due approcci è ciò che quotidianamente ci sfida in questo progetto”.
Rimango sorpresa ad ascoltarlo. È chiaramente un ragionamento molto approfondito, non certo qualcosa che si può improvvisare mentre si scende da un sentiero con un ginocchio dolorante.
E capisco quale sia la sua sfida.
Per Matteo, lui che queste cose le ha già provate sulla sua pelle, che la montagna la conosce sotto tutti i punti di vista. Non è solo un tema di arrivare alla vetta, ma soprattutto di riuscire a trasformare questo progetto in un vero e proprio caso studio.
“Sono davvero grato di aver preso parte a questa sfida.
Quando la tua azienda ti presenta l’opportunità di mettere a frutto anche per lavoro la passione di una vita, non puoi che sposare la causa.
Ho fatto mio ogni passo, ogni uscita, ho supportato e indirizzato le scelte anche in virtù dell’esperienza che avevo acquisito.
Adesso per me la sfida è doppia e parallela: tornati a valle, il punto è mettere a sistema ciò che impariamo quassù. È un processo da fare a piccoli passi, una serie di tavoli di studio che stiamo impostando: se nel change molte volte ci sono salti quantici di innovazione e di ricerca su ciò che non c'è ancora, in montagna si devono necessariamente fare passi più piccoli.
Dobbiamo prendere ogni singolo argomento di “teoria del Change” e valutarne l’impatto sul nostro approccio alla montagna. Sono svariati argomenti, diversi e complessi.
C’è il tema di un contesto incognito e sempre più imprevedibile da affrontare, in azienda come in montagna.
Il tema dell’allenamento al cambiamento, che va calato nel processo e non basta se fatto solo nell’ambiente “sterile” della palestra.
Il concetto dell’analisi dei dati e di come questi debbano essere usati per correggere eventuali errori di valutazione.
C’è il cambio di strategia come sinonimo di successo, di capacità di analizzare il riscontro che ricevi rispetto all’ostinazione di portare avanti qualcosa a ogni costo.
Il tema del “processo” di cambiamento, che è importante quanto la meta, quanto il fine del cambiamento stesso.
C’è un aspetto di team, di sintonia, la necessità per raggiungere un risultato di parametrarsi gli uni agli altri, e di stabilire il livello di conseguenza.
Ci sono questi e tanti, tantissimi altri temi. Tutti elementi che vanno isolati e inquadrati, utilizzando un approccio quasi scientifico per questa spedizione, perché possa essere davvero un laboratorio di innovazione di Change Management. A meno di un anno dalla sua conclusione, stiamo davvero iniziando a fare queste analisi”.
E la seconda sfida, gli chiedo?
“Il prossimo quattromila mi dirà molto sull’opportunità o meno che io personalmente prosegua in questo progetto, per quanto riguarda le uscite sul campo e non solo la parte di analisi. Ma per come la vedo io, in quest’ambito finché ciascuno di noi continuerà a provare a superare i propri limiti, a conquistare le sue paure, a convincersi che può fare qualcosa che credeva impossibile, allora significa che questa strana scuola di change sta avendo successo.
Oltre, tra lì e la cima del Monte Bianco, c’è anche un tema di vocazione e ambizione, di desiderio intrinseco. E ciascuno dovrà decidere per se stesso”.
Ascoltandolo mentre finiamo la discesa, penso che c’è davvero una sfida per ciascuno di noi in M4810.
Per la maggior parte dei partecipanti sarà provare a raggiungere una vetta prima considerata impossibile.
Per chi sa che quella vetta è possibile, perché è già stata conquistata, forse è quella di fermarsi. Oppure l’occasione di scoprire che anche quando crediamo di aver raggiunto un limite invalicabile, è ancora possibile fare un metro in più.
Dopo questa chiacchierata però ho capito una cosa. Per tutti, la vera sfida è ricordarsi che i membri di Methodos rimangono consulenti prima che alpinisti, e che questo laboratorio di Change Management non finisce quando si torna a valle. Anzi, nel nostro caso è proprio lì che comincia il vero lavoro.