È un mercoledì pomeriggio, negli uffici di Methodos. Mi guardo intorno e sorrido.
Gruppetti di persone sono in piedi nella stanza, piegate su delle carte escursionistiche: bussole in mano, girano su se stesse in modo goffo. In fondo, una telecamera su un treppiede riprende la scena, per garantire di trasmettere la conoscenza (e probabilmente qualche risata!) anche a chi non ha potuto partecipare a questo momento.
È orario d’ufficio ma le parole che si sentono sono insolite.. sono “azimut” e “isoipse”.
Si tratta di uno dei tanti incontri con i volontari del CAI di Milano in preparazione alla nostra spedizione sul Monte Bianco (e a tutte le precedenti che affronteremo).
Ci ritroviamo in una delle grandi sale open space dell’ufficio e, davanti a slide sia teoriche che pratiche sulla montagna, ci prepariamo gradualmente e inesorabilmente a ciò che affronteremo in questa impresa.
È un passaggio fondamentale di questo processo di cambiamento delle persone che prendono parte a M4810.
È un elemento critico, che pone un’ulteriore sfida. Perché un conto è andare in montagna accompagnati da una guida, godersi la passeggiata e la vista, e tornare a casa uguali a quando si è partiti. Un altro è saper riconoscere i cambiamenti del tempo, i possibili rischi; orientarsi ed essere in grado di ritrovare il sentiero anche in caso di nebbia; conoscere le insidie del terreno e cosa fare quando si passa sui ghiacciai legati in cordata. E tornare a casa cambiati, per davvero.
Per poterlo fare, però, bisogna essere consapevoli anche delle insidie e delle possibili criticità.
Il volontario del CAI che ci parla della gestione del rischio ha una faccia seria, ma un mezzo sorriso tradisce la sua grande passione. Ci sta mostrando sulle slide foto di crepacci e di sentieri esposti.
Non immagini di luoghi lontani e remoti in cui mai passeremo, ma vere e proprie testimonianze di cosa troveremo sulla Via Normale del Monte Bianco. Il piccolo gruppetto di consulenti che si trova davanti, lo osserva preoccupato.
“Nello sport d’avventura cancellare il rischio significherebbe snaturare l’esperienza stessa, togliere ogni attrattiva. E non sarebbe nemmeno possibile. Non possiamo parlare di rischio zero, in montagna. Ma dobbiamo parlare della sua riduzione”.
E come si riduce il rischio? Con la consapevolezza.
Ci mostra una foto che impieghiamo un po’ a mettere a fuoco. Poi capiamo.
È una famiglia di escursionisti. Le loro magliette rosse e i calzoncini corti risaltano nel bianco della neve che li circonda. Uno di loro è voltato all’indietro, tende la mano a una persona perché superi una specie di buco lungo e stretto nel terreno.
È solo quando il nostro insegnante ci fa notare che quello è un ponte di ghiaccio su un crepaccio, una voragine nelle viscere del ghiacciaio che può essere profondo anche centinaia di metri, che capiamo.
La consapevolezza è tutto. Senza consapevolezza, il rischio si moltiplica all’infinito.
Noi dobbiamo essere consapevoli di ciò che stiamo facendo, perché non vogliamo andare a fare una scampagnata in montagna: vogliamo cambiare.
Vogliamo scoprire dentro di noi la forza di affrontare le difficoltà. La fiducia del gruppo, la capacità di seguire la leadership e di contribuire attivamente al raggiungimento degli obiettivi.
La potenza di un’idea e la determinazione a raggiungere un risultato, anche se sembra impossibile.
Il Monte Bianco è la rappresentazione perfetta di tutto questo: solitamente lo affrontano nel lavoro, questa volta sarà tra ghiaccio, massi e crepacci.
Nella gestione del cambiamento questa sarebbe la fase di miglioramento della change readiness: abbiamo monitorato le sensazioni, la predisposizione individuale e di gruppo, la motivazione. Sappiamo da dove partiamo, e dove vogliamo arrivare. Nel mezzo non c’è solo l’allenamento del corpo, anche quella è forse la cosa più facile. C’è l’allenamento della mente, il luogo dove si gioca la vera partita.
Dopo la prima fase del cambiamento, quella dell’incredulità, del dubbio, c’è stata l’esaltazione, il senso di sfida. Siamo partiti di gran carriera e abbiamo scoperto che ce la volevamo tutti fare, un sentimento di cuore. Abbiamo iniziato ad allenare le gambe, con la palestra e le uscite in montagna, e la pancia con la dieta adeguata.
Ora è il momento della testa però: è lei che ci porterà alla vetta. E la mente è scettica per natura: ha paura del cambiamento, dell’ignoto, di ciò che non sa controllare. Si tira indietro, vorrebbe restare nella sua comfort zone, dove non ci sono né crepacci né rischi.
Ma non è così che si conquistano le montagne, né che si riesce a rimanere in vetta come azienda di consulenza.
Il rischio, ci dice il CAI, viene definito come la presenza in contemporanea di un pericolo oggettivo e di una scelta azzardata (pericolo soggettivo). Anche nel business è così, dove il confine tra il successo e la liquidazione è sempre sull’orlo di una scelta fatta in regime di incertezza.
E la bussola che ci deve guidare, in montagna e nella vita, è la consapevolezza. La preparazione.
Nessuno può permettersi di seguire come una pecora il branco, ciascuno è chiamato a fare scelte bilanciate e accurate, basate su conoscenze e competenze.
Nel lavoro quotidiano con i clienti come davanti a un crepaccio alla volta del Monte Bianco.