È un’alba fredda e dorata quando usciamo dal Rifugio Elisabetta, a 2.200 metri tra le cime della Val d’Aosta. Oggi ci aspetta una salita impegnativa verso Punta Lechaud: serviranno ramponi, corde e un po' di coraggio.
Mentre ciascuno di noi armeggia con scarponi e zaini, Martina ci legge la divisione in gruppi (e rispettive cordate) della giornata.
Incrocio lo sguardo di Max quando il mio nome viene nominato accanto al suo, e il suo viso si illumina del larghissimo sorriso che lo contraddistingue: impossibile resistere e non rispondere; ci si sente in buone mani.
Max è una di quelle persone che emana energia positiva e genuinità, il tipo che riesce a sembrare sereno anche quando il gioco si fa duro e tu vorresti tirarti indietro. Insomma, un compagno di cordata (e di team) ideale.
Soprattutto perché è un vero giocatore di squadra. Non l’ho mai visto lasciare indietro qualcuno, in tutte queste uscite. Ha un modo molto naturale, che non fa mai pesare al gruppo, di restare nelle retrovie, di prendersi il ruolo non proprio ambitissimo di “guardiano” di chi, per un motivo o per l’altro, si trova in fondo alla fila. Non l’ho visto spesso in cima, ma dal fisico asciutto e dal modo in cui chiacchiera anche durante le salite più estenuanti capisco che non sono certo le difficoltà fisiche a rallentarlo. Sono curiosa, quindi: perché lo fa?
Forse è per il suo passato. Mi racconta che lavorava nel sociale, che progettava e creava avventure e attività per giovani e meno giovani con vari problemi. “Oggi invece faccio attività che aiutano gli adulti ad imparare a cambiare”, mi dice ridendo mentre camminiamo. Sorrido: in effetti è una definizione azzeccata, visto che quello che Methodos spesso fa per supportare il cambiamento nei propri clienti è creare situazioni di sfida (fuori dalla comfort zone), di avventura.
E, come scopro in fretta, è un montanaro nell'anima.
Si districa bene tra i boschi e sa scegliere il sentiero migliore, ma anche capire come dosare le forze o quando rallentare perché un compagno è in difficoltà.
“Sono un uomo di montagna, il mare mi ha sempre annoiato un po', fin da quando ero ragazzino. Lasciami in spiaggia e resisto poco, buttami in mezzo ai boschi invece e mi riempirai di gioia! Quando mi hanno detto di M4810 ero felice come una Pasqua.
L’ho trovata un’occasione unica, sia per riprendere a camminare seriamente, cosa che avevo smesso di fare da un po’, sia soprattutto perché lo trovo davvero un progetto visionario. Non basta l’allenamento fisico, in montagna ciò che conta è soprattutto quello mentale. L’attitudine alla sfida, al gruppo, al superamento del limite, senza però dimenticare la sicurezza del singolo e del team. È quello che proviamo a trasmettere ai clienti ogni giorno, soprattutto quando li portiamo a “giocare” in contesti lontani dalla loro comfort zone. Applicarlo su noi stessi è semplicemente geniale”.
Mi racconta qualche episodio mentre continuiamo a camminare in salita, e dato che Max parla con scioltezza come se non stesse facendo nessuna fatica, capisco che lui potrebbe essere tra i primi ad arrivare in vetta ad ogni uscita. Eppure questa è quasi la prima volta che non lo vedo in fondo, a chiudere la via con la radio in mano.
Provo a sondare il terreno, chiedendogli cosa pensi delle sue possibilità di arrivare in cima al Bianco, dato che è un camminatore appassionato ma non certo un alpinista conquistatore di vette. Lui mi lancia uno sguardo ironico: “Cara mia, arrivato a una certa età posso prendermi il lusso di non preoccuparmene. Ormai ho perso qualsiasi velleità di voler giocare a chi l’ha vinta, o di esibizionismo. Arrivare in cima non è una necessità per me, non devo dimostrare nulla, non mi pesa restare indietro. Io cammino per camminare, perché mi piace farlo e vivere la montagna, perché amo questo progetto e la sfida personale e lavorativa che ci lancia, ma non potrei lasciare indietro un compagno per farlo come piace a me.
Quindi, se mi chiedi del Monte Bianco, posso solo dirti: arriverò dove arriverò. Ogni step sarà una sorta di esame di ammissione, la Vallée Blanche lo sarà per il Rosa, il Rosa per il Bianco, e via così. Anche oggi è un test importante, la prima volta con i ramponi ad altitudini elevate, e mi dirà molte cose sulle mie capacità. Se il mio corpo me ne darà la possibilità, ci proverò. Vedremo dove saprò arrivare”.
Poi si ferma un attimo a rifletterci, e dopo qualche secondo aggiunge ironico: “certo però spero di non arrivare sotto la cima del Bianco e dover rinunciare a un passo dalla vetta!”.
Intanto, mentre parliamo, la salita si fa più dura. I campi verdi hanno lasciato il posto alla neve, l'ambiente è completamente diverso, l'altitudine comincia a giocare brutti scherzi ai nostri polmoni. È una faticaccia, e vedo i miei compagni di cordata provati quanto me.
Superiamo "pezzi" di altre cordate, persone che hanno voluto rallentare o hanno proprio deciso di fermarsi, e la nostra guida Arnaud che li riunisce insieme per scendere.
"Sai, ero preparato alle dinamiche di team che si sarebbero create in questo progetto, ma non mi aspettavo che sarebbero state così determinanti”. Continua Max. “Stiamo modellando ogni scelta, ogni decisione, su noi stessi e sulle nostre reazioni, perché c'è qualcosa di profondamente personale in quello che stiamo facendo. Ogni volta che una persona si ferma, o viceversa che si sforza di andare avanti, ha un impatto su se stessa, ma anche sul gruppo".
Non sono certa di capire a cosa si riferisca, ma lo interpreto come uno spunto autobiografico; come un tentativo di spiegarmi con altre parole le motivazioni che lo spingono, sia avanti sia indietro.
Quando arriviamo sotto lo sperone di roccia e ghiaccio che è Punta Lechaud, ci accasciamo sulla neve affamati e stanchi. Io mi avvento sul cibo, sperando che mi dia l'energia per affrontare l'ultimo tratto.
Mangiamo i nostri panini velocemente e, quasi prima di aver avuto il tempo di riposarci, è già il momento di mettere i ramponi: ci aspetta la salita per la vetta.
Mentre armeggio con gli scarponi, vedo che Max invece non si è mosso e non sembra intenzionato a farlo. Che succede?
“Credo che mi fermerò qui”, sentenzia semplicemente, lapidario. Rimango di stucco: ma ci siamo quasi! Mancano poche centinaia di metri alla vetta, e non capisco perché voglia mollare ora. Ma leggo nel suo sguardo, oltre la fatica e l’apparente motivo della stanchezza, qualcos’altro.
Cerco di spronarlo, di convincerlo che ce la può fare, ma lui mi sorride placido scuotendo la testa.
"Te l'ho detto Ila: se sentissi che ce la faccio ed è la cosa giusta, lo farei. Non preoccuparti, sto bene. Vi aspetto qui!".
Non insisto oltre, non avrebbe senso; lo saluto mentre ci avviamo su per la cresta.
Voltandomi indietro per farlo, noto tre puntini colorati che salgono lungo la vallata della montagna…
Sono Arnaud, Sabrina e Carlo, le persone che avevamo superato più a valle e che avevano deciso di fermarsi. E stanno arrivando, in modo lento ma costante e deciso. Con il proprio passo, alla fine.
Sembra che Max avrà compagnia!
Arrivare in vetta è come il premio più bello di Madre Natura per tutta la fatica fatta. Ci guardiamo intorno con un sorriso da un orecchio all'altro, scambiandoci abbracci e strette vigorose. La mia cordata è l'ultima a salire, e incontriamo quelle precedenti in fase di discesa con la nostra stessa espressione di sorpresa soddisfazione.
Quando anche per noi è ora di scendere, dopo aver riempito gli occhi e i polmoni di montagne per qualche minuto, vedo però qualcun'altro che sale. Che strano, eravamo gli ultimi.
Guardo meglio e…sono loro! Arnaud, Sabrina, Carlo, e anche Max.
Mentre gli passiamo accanto riempiendoli di complimenti e incitazioni, incrocio il suo sguardo, e lui mi riserva un gran sorriso d'intesa.
Sorrido a mia volta: alla fine è riuscito a raggiungere la vetta e a non lasciare indietro nessuno, pienamente nel suo stile!