La strada sembra non scorrere sotto i nostri piedi, come se fossimo su un tapis roulant immaginario che ci fa camminare e camminare ma ci lascia sempre allo stesso punto. Siamo forse a metà strada del percorso verso la Grigna, e la sensazione è quella di aver scalato tre montagne.
Questa sarà ricordata a lungo come l’uscita più difficile di tutte. Nonostante la bassa altitudine, scaverà un solco profondo nella consapevolezza dei propri limiti in molti di noi, e sarà uno spartiacque importante nel progetto M4810.
Ma adesso non lo so. Nessuno di noi lo sa ancora. Ci limitiamo a camminare in silenzio.
Poi la persona davanti a me si ferma ansimando. È Alessio, il CEO di Methodos Italia, e dall’espressione intensa con cui sta guardando la vetta capisco che non è il caso di chiedergli se vada tutto bene. Poi in un sospiro, più a se stesso che a me, dice: “sta a vedere che sarà questo il mio Monte Bianco”.
Alessio è una persona non facile da inquadrare, in relazione al progetto M4810. È colui che mi ha coinvolto in questa “folle” avventura, raccontandomela per la prima volta e dicendomi che l’impresa sarebbe stata tale da meritare una narratrice che la raccontasse.
Si vede chiaramente quanto sia appassionato di questa idea, ma anche quanto la sfida si stia facendo sentire per lui. Fin dalle prime uscite il suo ginocchio ha accusato particolarmente lo sforzo, ricordandogli quanta fatica sarebbe servita per arrivare alla fine; tuttavia non ha mai mancato una scalata.
Ha il piglio caparbio del vero montanaro che cerca la vetta, ma anche lo spirito del manager che mette prima di tutto il benessere dei suoi colleghi. Parla del progetto con orgoglio e profondità di analisi, regalandomi alcune delle perle più belle da condividere tra queste pagine, ma allo stesso tempo non lascia trasparire spesso il suo pensiero personale sulla montagna. E questo mi incuriosisce.
Ricomincia a camminare e noi iniziamo a parlare. Credo che un po’ mi stia odiando perché aggiungo un ulteriore elemento di fatica a quella che già proviamo, ma in fondo ci distraiamo a vicenda. È una delle persone che mi sembra abbia più chiare le varie dimensioni di questo progetto, anche quelle meno evidenti ed esplicite, e per questo è un piacere parlarne con lui. È come se ti aprisse una porticina nel retro della testa su cose che stavi facendo senza nemmeno rendertene conto.
“Quello che ho detto prima era più un’ammissione di sorpresa che di resa. Sono partito per il trekking di oggi con delle aspettative completamente sbagliate, come molti di noi. Mi aspettavo un percorso facile, una bella giornata, caldo e sole. La difficoltà per me poi è la discesa, non tanto la salita, per cui sono partito fiducioso. In fondo sono sempre arrivato in vetta, e forse ho iniziato a dare per scontato di poterlo fare.
Ma quando, poco fa, ho alzato lo sguardo e ho visto quanta strada abbiamo ancora da fare, ho vacillato.
Ce la potrei fare, certo. In fondo la vetta è lassù, la vedo. Ma sento le forze che diminuiscono sempre di più, il ginocchio che inizia già a far male quando solitamente non lo sento finché non scendiamo, e mi chiedo: a cosa serve arrivare in cima, se poi non sono in grado di scendere? Se è una questione di dosare le forze, di riconoscere i propri limiti, ecco allora penso di averli trovati oggi. Penso che la Grigna possa essere il mio Monte Bianco”.
Mentre parliamo di queste cose, il bivacco, il nostro primo punto di riferimento, si avvicina. Il rifugio è ancora molto lontano, e io penso che in pochi arriveranno in cima questa volta. Arriveranno di sicuro le persone avvezze alla montagna come Martina, quelli per cui la sfida di questo progetto è più mentale che fisica. Sabrina l’ho persa qualche metro fa, Alessio vede già chiaramente il bivacco come l’ultimo passo che riuscirà a fare, Viki è più bianca della poca neve che abbiamo incontrato, e la stanchezza serpeggia tra molti di noi. Non credo che questa volta faremo la foto di rito tutti insieme in vetta.
E infatti, quando arriviamo al bivacco, qualcuno solleva bandiera bianca. Si inizia a parlare di come organizzarci, di chi tornerà giù e come, dato che non siamo accompagnati dalle guide questa volta. Tra un panino, un sorso d’acqua e una barretta, ci prepariamo a dividere il gruppo.
Eppure... eppure non succede.
Quando è il momento di rimettersi in cammino e tornare verso valle, d’improvviso non rimane nessuno nel gruppo della discesa. Sabrina tira fuori tutta la sua grinta e si rimette in marcia. Alessio guarda Viki e si offre di tornare giù insieme. So, per quello che ci siamo detti, che è ciò che vorrebbe anche una parte di lui, ma che è combattuto perché lo stimolo della vetta è forte.
Ma capisco anche che non lascerebbe mai Viki in difficoltà, che non vorrebbe si forzasse eccessivamente. Lei vacilla, ma poi lo rassicura: ce la fa.
Ci rimettiamo tutti in marcia, e a chiudere la fila ci siamo proprio noi. L’ultima parte del percorso è più difficile che mai, e sento nei miei compagni di salita il dubbio lancinante di aver sbagliato.
Lo sento in Viki, che è sempre più bianca.
Ma soprattutto in Alessio, perché vedo nei suoi occhi la paura di non aver colto i reali pensieri di lei, di averla in qualche modo involontariamente forzata. Quel famoso limite che andiamo cercando di superare di continuo; e se invece certe volte andasse solo rispettato? Se la linea sottile tra la sfida e la forzatura stesse proprio lì?
Un passo dopo l’altro, alla fine mettiamo piede sulla piattaforma di metallo che regge il rifugio. Ce l’abbiamo fatta...tutti! Contro ogni pronostico. E la foto di rito ce la siamo meritata.
Ma nella discesa, mi ritrovo nuovamente accanto un Alessio che non sembra soddisfatto. Vedo che qualcosa lo tormenta.
Penso sia il dolore al ginocchio, e gli chiedo come si senta. Se è orgoglioso di aver conquistato il suo Monte Bianco, alla fine. E lui si mette a ridere.
“Conquistato? Non lo so. L’ho fatto davvero? È questo che mi chiedo, è per questo che non sono tranquillo come vorrei. Sai, se continuiamo a valutare i risultati di questo progetto in termini di “sono arrivato in cima o no”, forse rischiamo di fare un grosso errore di sottovalutazione. Se fosse “solo” questione di scalare il Monte Bianco, allora sarebbe un successo reale solo per poche persone. Molte sanno che non arriveranno lassù. Invece dobbiamo vedere questa sfida in ogni sua dimensione perché appartenga a tutti, e queste sono tantissime.
C’è la dimensione della crescita personale e professionale: lo stimolo della Changeability, che ti porta a smettere di fumare, ricominciare a guidare, fare qualcosa di buono per te stesso.
C’è quella della consapevolezza, sia in montagna sia nei parallelismi con il lavoro che svolgiamo ogni giorno.
I feedback e il miglioramento continuo, che ci fa rimettere in discussione tutto a ogni uscita e imparare che il change management è davvero una pratica universale.
Il fatto è che c’è anche un’importantissima dimensione di sfida per il team. Uscire da una cultura dell’uno, scoprire i colleghi e la collaborazione con loro in termini nuovi. Ed è qui che oggi mi sento di non aver conquistato la vetta.
La grande domanda è: dove si trova il limite? Oltre quale punto una persona sceglie di continuare a salire non perché lo vuole, ma perché sente di doverlo fare? Magari semplicemente dalla propria idea di sé in relazione agli altri, ma pur sempre “dovendo” e non “volendo”.
Secondo me per noi oggi quel limite era al bivacco, ma l’ho capito dopo. Quando siamo arrivati lì, era chiaro che Viki non volesse proseguire. Lei diceva di sì, ma sarebbe bastato guardare oltre la fatica, oltre il pensiero che dobbiamo spronarci a uscire dalla comfort zone, per scoprire la verità: non voleva esagerare perché domani ha un impegno importante di lavoro, a cui non voleva arrivare stanca.
Ecco, io mi chiedo, come facciamo a vedere il limite? Come facciamo a capire se quel limite in quel momento va rispettato o va sfidato? E a non cadere nella trappola di pensiero che sia necessario andare sempre e comunque oltre. E anche, soprattutto, a non farci male cercando di sfidare le nostre possibilità.
Io oggi mi chiedo questo, e se come “alpinista” sono orgoglioso di ciò che ho fatto, come manager mi chiedo se ho fatto la cosa giusta. E io, anche qui in montagna, sono prima di tutto un manager. Una persona che ha la responsabilità di altre persone. Quindi questa per me è una delle dimensioni più importanti della sfida che è M4810.
Come nel change management, la vetta è la nostra vision: è chiara, raggiungibile, la strada che abbiamo scelto ci porta sicuramente lì. Ma per arrivarci devi camminare in cresta, giocare di equilibrio. Non puoi sbilanciarti da una parte, verso l’ottimismo incondizionato, perché rischieresti di sottovalutare le difficoltà e di cadere nel dirupo. E nemmeno puoi restare arroccato nella tua visione iperrealista, perché non c’è cambiamento senza fiducia nelle sue possibilità.
Quindi sono qui, su questa cresta mentale (e fisica), e ogni volta mi chiedo dove sia il giusto equilibrio”.
Rimango in silenzio ad ascoltarlo, e poco dopo, per un motivo o per l’altro, ci separiamo. Non ho quindi la possibilità di dirgli ciò che penso, cioè che non c’è manager migliore di chi mette prima di se stesso i suoi collaboratori. Uno che sarebbe stato molto più gratificato dall’aver compreso le vere ragioni di un collega, che dall’arrivare in cima.
E che è questo il tipo di manager che può davvero chiedere al proprio team di fare qualcosa che non ha mai fatto prima, nella vita e nel business.