Arriviamo al parcheggio a Milano, che ci siamo dati come punto d’incontro con il resto del gruppo, la mattina presto. Sono da poco passate le 7, e siccome siamo a maggio il sole è già alto nel cielo: promette una giornata bella ma calda.
Mi guardo intorno, cercando segni di attrezzatura da montagna, e trovo il team. Sono tutti vestiti in modo sportivo, ma non specifico per il trekking: molti di loro non si sono mai dati alle scampagnate in montagna e si sono ovviamente arrangiati con ciò che avevano. Dalla prossima uscita, sarà tutto un altro panorama: il nostro sponsor d’eccezione, Salewa, rifornirà tutti di attrezzatura tecnica di ultima generazione, e sembreranno un vero team di alpinisti, come si addice a chi da qui a due anni si ritroverà a raggiungere la cima del Monte Bianco. Li si riconosce subito non solo per l’abbigliamento, ma soprattutto per lo sguardo di ognuno. Sono lì che chiacchierano normalmente, ma si vede subito che gli occhi brillano: è la prima sfida che si trovano ad affrontare, oggi questo sogno un po’ folle ma bellissimo chiamato M4810 diventa realtà. Non più solo parole, ma una sfida fatta di sudore, sacrifici, allenamento individuale e lavoro di squadra.
Comunque è il bello di questa avventura: sono tutti ancora un po’ impreparati, e lo sanno. Ma sono anche tutti carichi di stimoli e di voglia di farcela! È un percorso lungo e tortuoso che inizia oggi, un appuntamento mensile che occuperà svariati giorni al mese per i prossimi 24, una sfida costante da accompagnare con la preparazione atletica e una dieta finalizzata - e, ovviamente, con il lavoro in ufficio. Non proprio quello che ci si aspetta da un’azienda, un intero team di una quarantina di persone, in un venerdì lavorativo, comunque!
Partiamo, divisi in gruppetti più piccoli nelle varie macchine, destinazione: le montagne sul lago di Como, per la precisione Moggio. Il nostro obiettivo, in questa prima uscita di “acclimatamento”, è il monte Sodadura, e in particolare il rifugio Nicola, ai Piani di Artavaggio. A 1900 metri sul livello del mare, è una bella sfida per il gruppo, considerando che da Moggio partiamo a poco meno di 900.
Prima di partire, percepisco nell’aria sentimenti discordanti. Sento voci preoccupate e altre esaltate, timori sulla difficoltà del percorso, ansie sulla ripidità della salita. 1000 metri di dislivello non sono tanti, ma non sono nemmeno pochi per chi non è mai andato in montagna. Mi rendo conto della difficoltà di chi ha dovuto studiare questa prima uscita, ovvero i membri di Methodos che più sono avvezzi al trekking: non dovevano scegliere qualcosa di troppo difficile per non rischiare di scoraggiare il gruppo. Dall’altra parte, non potevano nemmeno optare per qualcosa che risultasse troppo facile: avrebbero rischiato di far sottovalutare ai colleghi la portata della sfida che li attende nei prossimi due anni.
Il sentimento prevalente, comunque, è quello positivo del senso di competizione personale. Ma soprattutto del divertimento, di passare una giornata all’aria aperta, un venerdì lavorativo con i colleghi, che diventano sempre più degli amici e dei compagni di avventura, all’insegna dello sport!
Tutti si preparano: qualcuno fa stretching, qualcun altro una telefonata, qualche ardito fuma persino una sigaretta. E poi via, inizia la salita! Il passo è cadenzato, rapido, di chi ha voglia di farcela. I volti sono sorridenti, si chiacchiera lungo il percorso, camminando nell’ombra del bosco. Tutto sta andando bene, anche meglio del previsto!
Ma la montagna non è mai semplice come sembra, e la fatica arriva gradualmente dopo qualche chilometro. Il gruppo comincia a separarsi, con una parte di persone che apre la strada, e un altro che viene distanziato, rimane indietro. Poi arrivano i crampi, le vesciche, la stanchezza di chi non è abituato ad un’attività così provante per lungo tempo...e anche il secondo gruppo inizia a sfaldarsi. Il gruppo che si trova più avanti ha un attimo di vacillamento, quando arriva in prossimità del primo rifugio, dove per sicurezza è stato comunque prevista la possibilità di fermarsi a pranzo. Dovrebbero rimanere tutti lì e rinunciare alla vetta? Aspettare il resto del gruppo, e continuare dopo mangiato?
Per la prima volta, sento un po’ di incertezza. Non perché qualcuno pensi di non farcela, né perché ci sia del risentimento per le prevedibili difficoltà, ma semplicemente perché è sempre brutto lasciare indietro dei compagni. Sono una squadra, e come squadra vorrebbero arrivare al traguardo, oggi come nel 2020. Ma si sa anche che non tutti ce la faranno, ed è questo il punto: che devono trovare il modo di funzionare come un meccanismo perfettamente oliato, in cui tutti collaborano al massimo delle proprie potenzialità. Non tutti arriveranno fisicamente in cima, ma tutti devono arrivarci moralmente. È quello che ha detto lo stesso Filippo durante l’introduzione del progetto, è quello di cui tutti si trovano a capire il significato ora.
Ci si sente via radio con il resto del gruppo, qualche battuta e qualche parola di conforto, e poi si decide di fare quello che va fatto: proseguire, con il supporto di tutti, anche di chi non c’è fisicamente. E così si riparte!
Adesso il terreno è diverso, siamo veramente in montagna. Le salite si fanno più estenuanti, ma i panorami sempre più belli, come a volerci ricompensare. Persino il cane che accompagna il gruppo comincia ad essere stanco, e occasionalmente si avvicina al padrone e si fa portare in braccio. Ma siamo sempre più vicini alla meta! L’ultimo sforzo viene ripagato dalla vista conica del rifugio Nicola, che richiama quella del monte Sodadura...yu-huuuuu!
L’arrivo a destinazione è sempre un momento magico. È come se tutta la stanchezza si riversasse d’improvviso sui muscoli. D’un tratto ci si sente come se non si potesse muovere più nemmeno un passo. Tutti collassano appena toccano una panca, o addirittura per terra. Ma mi guardo intorno, e non vedo nessuna faccia a cui manchi il sorriso! Un sorriso ansimante e sudato, ma radioso. E ovviamente, quello più largo ce l’ha stampato sul viso proprio chi era alla sua prima esperienza di trekking, chi temeva di non farcela, chi scopre improvvisamente di aver sottovalutato le proprie capacità!
I sorrisi si allargano ulteriormente quando arriva il pranzo: pizzoccheri per tutti, insieme ad altre mille prelibatezze della zona! Non so se era questo che intendeva Luigi, il medico della spedizione, quando ci aveva parlato della dieta da seguire, ma tant’è. Bisogna pur premiarsi!
A pance piene, ci si concede un po’ di relax: chi gioca a fresbee, chi si esamina le vesciche come ferite di guerra, e di nuovo, chi fuma. Da fumatrice, posso confermare che poche cose danno più soddisfazione di una sigaretta in vetta. Il nostro medico mi perdonerà per queste parole, spero!
Arriva presto l’ora di tornare giù. La discesa sembra più breve e più facile, ma è spesso proprio qui che ci si fa male, quindi va affrontata con estrema attenzione.
Quando arriviamo a valle e ritroviamo il resto del gruppo, l’eccitazione è palpabile. Le persone si ritrovano come se non si vedessero da settimane, e non da ore. Abbracci, strette di mano, risate, racconti. Ognuno fa la conta delle “ferite di guerra”: chi mostra con orgoglio le vesciche, chi si fa massaggiare un piede, chi accusa strappi o contratture. Sono i classici souvenir che si riporta a casa dopo un trekking in montagna, soprattutto se non si è allenati. Ma tutti, anche i più acciaccati, sorridono orgogliosi. Ognuno ha un’idea molto più chiara di quello che lo aspetterà nei prossimi mesi. Tutti hanno capito che la montagna non va sottovalutata, ma che se affrontata con rispetto e preparazione, può dare grandi soddisfazioni. Bisogna cambiare solo il proprio mindset...e cosa vuoi che sia, per la “change management company”?