È una giornata soleggiata e calda quella in cui iniziamo a percorrere il sentiero che ci porterà ad affrontare la penultima vetta del progetto M4810, degna del nome di questo Parco: il Gran Paradiso.
Con i suoi 4.061 metri di altitudine, questa cima può sembrare meno ambiziosa della precedente - il Monte Rosa - ma in realtà non lo è: in primis perché più tecnica, almeno così ci hanno spiegato; ma soprattutto perché ci offre un assaggio più realistico del terreno misto che troveremo sul Bianco, dovendo affrontare sia sentieri sterrati che pietraie, sia neve che ghiaccio.
Mentre saliamo circondati dalla bellezza di questo angolo di Alpi quasi completamente vergine, dove non arrivano funivie né trenini, ci riempiamo gli occhi del verde dei prati e le orecchie del rumore dei tanti ruscelli che incontriamo, che man mano che saliamo diventano bellissime cascate.
“Sembra davvero il Paradiso, almeno per come se lo immagina chi ama la montagna”, mi ritrovo a pensare guardandomi intorno dallo spiazzo del rifugio Vittorio Emanuele, che si affaccia su un paradisiaco laghetto dalle acque turchesi. Con i suoi 2.732 metri fa da confine tra la “bassa montagna” sotto di noi, con i prati verdi e le marmotte che fischiano, e l’alta montagna sopra, con i grandi ghiacciai e le nevi perenni, che affronteremo domani.
“Chissà come sarà la vista da lassù, se già qui è così!”, mi chiedo osservando questa meraviglia.
Ma in fondo ho la brutta sensazione che anche questa volta non lo scoprirò.
Pioggia e sassi
Quando la sveglia suona è ancora più presto dell’altra volta: 3.10 di notte.
Cerchiamo di fare una partenza intelligente che ci permetta di battere sul tempo le altre cordate e non trovarci ad attendere il nostro “turno” sotto la vetta.
Ma soprattutto c’è un tema di sicurezza: con il caldo anomalo di questo periodo dell’anno, il fresco della notte e delle prime ore della mattina sono a maggior ragione le migliori per affrontare la montagna.
Ma mentre ci alziamo dai nostri letti a castello e iniziamo a prepararci, un rumore inaspettato mi colpisce: un ticchettio costante e insistente che rimbomba sul tetto di lamiera dell’edificio.
Apro la finestra e rimango senza parole: piove!
A colazione inizia il processo di triangolazione dei meteo delle guide alpine, le uniche che hanno il dono di un wi-fi a queste quote: sembra che il maltempo arriverà nel pomeriggio, e così decidiamo di procedere, pronti a rientrare qualora le condizioni dovessero mostrarsi diverse.
Usciamo nella notte, e con sorpresa la pioggia di neanche un’ora prima sembra essere stata solo un brutto sogno: il cielo è abbastanza limpido sopra di noi, persino qualche stella fa capolino. Le guide indicano masse scure alle nostre spalle, ma sembrano adeguatamente lontane. Il tempo pare essere dalla nostra.
E così iniziamo a salire. O meglio, a saltare. Perché tutta la prima parte del percorso si sviluppa su un’enorme pietraia, e quello che affrontiamo non è un sentiero ma un vero e proprio rebus per capire quale strada tra i grandi e piccoli massi sia la meno tortuosa.
Difficile se non impossibile tenere un passo costante e uniforme, con buona pace del “kalipè” che abbiamo recentemente scoperto con successo, quell’andatura da montagna fatta di passi piccoli, lenti e continui che ti porta in cima a qualunque cosa.
Qui no, qui ci sono salti, squat e allunghi, tratti in cui bisogna aiutarsi con le mani, altri in cui la pietra su cui hai messo il piede decide di fare l’altalena sotto il tuo peso.
Insomma, se pensavamo che camminare a 4.500 metri fosse la cosa più difficile che potevamo fare…scopriamo in fretta che questa te la fa rimpiangere.
Mentre saliamo guardo con desiderio qualche cordata che invece percorre con i ramponi un tratto di neve alla sinistra del pietraio su cui siamo noi. Mi chiedo velocemente perché non siamo lì anche noi, se non sarebbe più semplice e molto meno faticoso prendere quella via che passa sotto il ghiacciaio, ma le guide alpine tirano dritte sui sassi e così ovviamente facciamo anche noi.
Ci raccontano che, in condizioni normali, in questo periodo dell’anno tutta questa zona è coperta di neve e si indossano i ramponi poco sopra il rifugio.
Ma questo non è un anno normale, da quassù si percepisce chiaramente: c’è un lamento silenzioso della natura, che a queste quote si può udire più chiaramente nel suono del ghiaccio che si ritira e si spacca.
E, come sarà ancora più chiaro alla fine di questa giornata, il compito di questa nostra spedizione vuole anche essere quello di diventarne testimoni e portavoce.
Occasionalmente qualche altra goccia di pioggia ci raggiunge, trasformandosi man mano che saliamo in neve, ma la visibilità resta sempre buona e le nuvole nere sembrano aggirarci invece di raggiungerci, quindi continuiamo a salire.
Quando penso che non ne posso più, che un altro allungo per superare il dislivello tra due massi ucciderà definitivamente i miei quadricipiti affaticati, finalmente vedo che la guida in testa si è fermata e toglie la corda dallo zaino: è ora di mettere i ramponi.
Scalare la vetta
Ricominciare a camminare con il ritmo che ci ha portato sul Rosa, il famoso kalipè, ci fa sentire tutti più sicuri della vetta.
Sollevo-appoggio-pausa, sollevo-appoggio-pausa…
Come ormai è consuetudine, più ci avviciniamo alla vetta più il paesaggio scompare alla vista: nuvole bianche ci si addensano intorno e non sappiamo più bene dove sia l’arrivo.
Poi ci troviamo davanti una parete di roccia.
E ora?
E ora, signori, si scala.
Capisco cosa intendevano le guide quando parlavano di tratti più tecnici specialmente sul finale: bisogna affrontare un tratto alpinistico su roccette per raggiungere l’agognata statua bianca della Madonna posta sulla cima.
Davanti a me vedo la cordata che ci precede sparire alla vista, svanendo tra le nuvole mentre salgono una specie di scala fatta di pioli di ferro piantati nella roccia, passando la corda in spuntoni di metallo chiamati “code di maiale”che dovrebbero dare un po’ di sicurezza in caso di caduta.
Faccio un respiro profondo e…via, sparisco anche io nel bianco.
Il tratto per raggiungere la Madonnina (e poi per lasciarla) è quanto di più emozionante e spaventoso si possa pensare di fare a quattromila metri. Una serie di passaggi in cui le mani guantate e intorpidite dal freddo, e i piedi rigidi negli scarponi e impacciati per la presenza dei ramponi, sono aggrappati a pezzi di metallo conficcati nella roccia, mentre il resto del corpo penzola nel vuoto. “Vite appese a code di maiale”, commenterà poi ironico Giuseppe, uno dei membri della spedizione.
Il fatto che questo vuoto oggi sia riempito da nuvole bianche, che non lasciano ben percepire se sotto ci siano 5, 50 o 500 metri, forse è quasi un bene per chi soffre di vertigini.
Ce la facciamo tutti. Sento le urla di gioia dei miei compagni di avventura bucare le nuvole, quando raggiungono la vetta prima di me, e poi ci siamo, eccola: la Madonnina è davanti a noi.
E sorrido, perché non deve più sentire freddo. È circondata dagli alpinisti di M4810 che sventolano una grande bandiera per la foto di vetta.
Celebrano tutti una grande novità di questa uscita sul Gran Paradiso: il logo rosso è per la prima volta affiancato a quello del Gruppo Digital 360, di cui Methodos è appena entrata a far parte.
Purtroppo il momento dura poco perché questa cima è un cucuzzolo di roccia a quattromila metri che può ospitare pochi gioiosi alpinisti per volta, e bisogna far spazio a quelli dietro di noi.
Così lasciamo la Madonnina a farsi scaldare dai festeggiamenti di qualcun altro e iniziamo la lenta ma necessaria discesa verso valle, recuperando presto il sole e la vista sul panorama del Gran Paradiso.
Un rientro amaro
L’umore è di quelli estatici che seguono ogni grande vittoria, ma quando arriviamo a valle e torniamo in possesso di internet ci arriva forte e potente l’onda d’urto di ciò che è successo meno di 24 ore prima: il crollo di un grande seracco sulla Marmolada, dovuto alle temperature insostenibilmente alte della stagione.
La notizia ci sconvolge e ci tocca più di quanto chiunque non fosse in montagna in quei giorni possa capire.
Stiamo vedendo con i nostri occhi da mesi, anzi anni, il dramma dei ghiacci che si sciolgono in alta quota, gli effetti del riscaldamento globale che alcuni ancora osano negare, i danni e i pericoli di un nemico silenzioso ma terribile che stiamo facendo sempre troppo poco per contenere.
M4810 è nato come una palestra di Change Management ad alta quota, ma è diventato molto di più: un gioco di equilibrio tra volontà e opportunità, cercando sempre di superare i propri limiti ma di non farlo con quelli che non vanno superati.
La montagna è da sempre insidiosa e portatrice di pericoli, e lo sta diventando sempre di più anno dopo anno. Siamo sgomenti e impotenti testimoni di quanto il cambiamento climatico stia mutando il nostro pianeta.
I passi che facciamo con M4810, e le pagine come questa sul blog, sono un nostro piccolo tentativo di contribuire, di sensibilizzare sul tema proprio quelle grandi aziende che ci seguono e ci rispettano, e più di tutte hanno le possibilità economiche e di influenza per cambiare le cose.
Guardiamo quello che resta del nostro progetto, l’ultima tappa che abbiamo tanto temuto e sognato, il Monte Bianco, e ci sembra più distante che mai.
Anche lo sgomento delle nostre Guide è palese, con frasi lapidarie come “mai vista una desertificazione così” guardando quelli che furono i loro amati ghiacciai.
Ma nessuno meglio di loro può prevedere e arginare un pericolo che, seppur imprevedibile, si può cercare di minimizzare con decisioni consapevoli.
Mi viene in mente la salita sul pietraio invece che sulla neve sotto i seracchi, la costante richiesta di alzarci presto per partire con il freddo, o ancora la spinta a scendere velocemente prima che le temperature si alzino, senza mai abbassare la guardia finché non si è davvero arrivati.
Non ci sono risposte, solo tante domande. Ma l’unica che non si può chiedere è: “perché?”.
Come ha magistralmente riassunto il giornalista di Libero amante della montagna Filippo Facci, “non cercate di capire: una risposta normale sul perché tanti uomini si muovano su dei confini anormali non esiste. Emergono solo la bellezza e il trionfo della natura (che non distingue tra bene e male), il desiderio di rapportarsi ai propri limiti e alle proprie carenze. La montagna è una dimensione innaturale all’uomo, che ci confronta con bisogni finalmente ricondotti all’osso: fatica, freddo, paura, fame, sete. E, nel caso, morte. [...]”.
Noi ci facciamo testimoni di tutto questo, affidandoci all’esperienza e alle decisioni delle guide alpine che chiamano casa queste montagne, rispettosamente consapevoli della Natura meravigliosa che abbiamo intorno e che rischiamo di distruggere.
Certi almeno del fatto che se certe tragedie contribuiscono a richiamare l’attenzione del mondo su questo fenomeno, e se persone come noi decidono di amplificare il loro messaggio in ogni modo in cui possono, non sarà stato invano.