Nel bianco
Non c’è più niente.
Sono scomparse le montagne intorno a noi, le altre cordate diventano puntini appena accennati nella nebbia, e i crepacci sono invisibili presenze sul percorso.
In più, un vento gelido e tagliente ci sbatacchia a destra e sinistra mentre cerchiamo di tenere il passo della guida.
Sollevo-appoggio-incespico-pausa, sollevo-appoggio-incespico-pausa…
Eccolo, il vero volto della montagna. Per la prima volta non ci mostra un sorridente paesaggio fatto di sole e caldo, ma la sua ben più rabbiosa facciata di maltempo. Siamo stati fortunati finora, troppo fortunati forse. Prima o poi doveva finire.
Certo, sarebbe stato meglio non succedesse proprio arrivati al Rosa!
Eppure continuiamo a camminare.
Sollevo-appoggio-pausa, sollevo-appoggio-pausa…
La traccia è ben visibile, con tutti i piedi che la percorrono quotidianamente è quasi un’autostrada, e le guide ci incitano a proseguire con il loro passo che non ammette tentennamenti.
Iniziamo a superare altre cordate. Il nostro passo non è aumentato, ma nemmeno è mai calato, e pian pianino maciniamo chilometri. Passiamo una coppia che ci aveva superato con foga, e che ora è ferma ansante al lato della pista. Incrociamo una cordata di francesi che salivano convinti quando siamo partiti, e che ora stanno tornando indietro con espressioni stravolte.
E noi invece…kalipè.
A un certo punto, proprio mentre mi chiedo se la nausea che sento sia un principio di mal d’altitudine o semplicemente la mancanza di punti di riferimento con tutta questa nebbia, succede il miracolo.
Il regno dei ghiacci
Il vento porta via le nuvole in cui stavamo camminando, improvvisamente ci riappropriamo dell’uso della vista…e che vista!
Siamo al cospetto di incredibili giganti di neve.
Accanto a noi si sviluppano enormi seracchi, blocchi di ghiaccio di ogni dimensione e forma, di un azzurro intensissimo, che brillano nella luce del sole finalmente visibile.
Persino i crepacci, ora illuminati da questo colore incredibile, tanto che sembra abbiano acceso delle torce sotto terra, appaiono meno spaventosi.
Il vento continua a tirare, facendo apparire e scomparire le immagini davanti a noi a seconda delle nuvole che porta, ma lo spettacolo che ci fa intravedere ripaga tutta la fatica.
L’unico problema è non perdere il ritmo per guardarsi intorno:
Sollevo-appoggio-pausa, sollevo-appoggio-pausa…
E così, un passo alla volta, continuiamo a salire. Il cielo si richiude e il vento ricomincia a urlare forte, ma ormai siamo a più di quattromila metri e i polmoni non sembrano pronti a dichiarare la resa. Significa che possiamo farcela.
“Mancano un centinaio di metri”, urla a un certo punto una guida sovrastando il vento. Il mio cuore, finora così regolare, salta un battito: non ci credo! Ci siamo!
“...una mezz’oretta e dovremmo arrivare a Capanna Margherita”, conclude poi la guida.
E il mio sorriso, di nuovo, si congela sul viso.
Come possiamo metterci mezz’ora a fare cento metri?
Lo scopro pochi passi dopo, quando vedo la traccia leggermente in salita che abbiamo seguito finora impennarsi verticale su un muro di neve.
Iniziamo a salire senza avere la minima idea di dove siamo, di quanto manchi, di cosa ci aspetti. L’unica certezza sono i crepacci a cui passiamo vicino, vicinissimo.
Poi la guida della mia cordata si volta e dice: “ci siamo!”
“Non ci credo finché non lo vedo”, urlo di rimando, un po’ piccata per l’illusione di poco prima.
E proprio mentre pronuncio queste parole una massa scura emerge davanti a me, una forma rettangolare che non è assolutamente una montagna.
Ci siamo davvero!
Siamo arrivati sulla Punta Gnifetti, al rifugio alpino più alto d'Europa, la Capanna Regina Margherita - 4.554 metri.
La vista più bella d’Europa (così dicono)
Non si può descrivere la gioia di un momento del genere. Il cuore sembra esplodere, un po’ per la fatica un po’ per la soddisfazione, e un urlo emerge prorompente dai polmoni provati, perdendosi nel vento.
Siamo arrivati! Siamo arrivati sulla cima del Monte Rosa!
L’altra cosa che non si può descrivere è il piacere di entrare in un rifugio caldo lassù, a 4.500 metri, mentre fuori infuria una specie di bufera.
Una possibilità più unica che rara, aggiungerei, perché non sono in molti ad aver costruito un edificio a quell’altitudine.
Una costruzione in legno e lamiera, portata su un pezzo alla volta da muli e persone, e poi assemblata in quota nel 1893, diventando la prima capanna in quota italiana e ancora oggi uno degli osservatori fissi più alti al mondo.
Ci fiondiamo all’interno di questa straordinaria opera ingegneristica di alta montagna e ci abbuffiamo di barrette, tisane calde, fette di torta fatta in casa e persino…pizza preparata dallo staff! Di quella sentiamo solo il profumo però, non abbiamo il coraggio di assaggiarla visto che ci aspettano oltre 1.000 metri di discesa.
E ogni buon alpinista sa che l’uscita si porta a casa solo quando si è arrivati alle macchine.
All’appello manca solo una persona: Alessio, che in cordata con una guida è salito con un passo un po’ più lento ed è rimasto indietro. A questo punto non sappiamo se stia arrivando o, visto anche il maltempo, sia tornato indietro.
Mentre ce ne stiamo lì al calduccio, a cercare di riprendere la piena funzionalità delle dita di mani e piedi, la luce che filtra dalla finestra cambia: un raggio di sole caldo buca la nebbia, e ci accorgiamo di essere finalmente sopra le nuvole.
Il fotografo è uno dei pochi che ha il coraggio di uscire a immortalare il momento - sarà anche la (seconda) vista più bella d'Europa, ma siamo tutti stravolti e ce la godiamo dalla finestra.
Rientra dopo qualche minuto e annuncia: “Non solo c’è una vista bellissima, ma c’è anche Alessio! È alla base dell’ultima salita, una ventina di minuti e arriverà qui”.
Un passo alla volta
Un’esplosione di gioia collettiva lo investe quando varca la soglia del rifugio, sorridente e tutto sommato nemmeno troppo distrutto dall’impresa.
“È incredibile, ho scoperto la potenza del passo della guida”, ci racconta mentre sorseggia anche lui la sua meritata tisana. “È come se tra un passo e l’altro facessi una pausa, così ti riposi, e poi vai così lento che non ti serve nemmeno fermarti. Nelle altre uscite, quando monitoravo i battiti sul mio orologio Garmin, mi trovavo spesso a 200…questa volta non sono mai salito sopra i 130 battiti al minuto!”.
Mi viene in mente una celebre frase di Reinhold Messner: “in montagna bisogna regredire, non c’è spazio per la fretta. Bisogna tornare alla stasi e poi muoversi. In montagna non c’è nulla da conquistare, c’è solo da lasciarsi conquistare”.
È quello che siamo riusciti a fare oggi, lasciandoci conquistare dal Rosa nonostante il suo vento, le nuvole e la fatica.
Non è mai abbastanza tardi quando le guide annunciano che è ora di ripartire. La discesa è spesso più difficile della salita: oggi non sembra che sarà da meno, visto che il cielo si è richiuso e fuori dalla finestra è tutto più bianco che mai.
Ci avviamo verso valle sempre più sbatacchiati e colpiti dal vento, senza nessun punto di riferimento se non la pista che, fortunatamente, si vede comunque piuttosto bene, e la traccia GPS che abbiamo fatto all’andata a confermarci il percorso con precisione.
In pochi minuti perdiamo la quota che abbiamo guadagnato faticosamente, e tempo un paio d’ore siamo in vista del rifugio: resta solo da attraversare la parte di ghiacciaio più crepacciata, ma ora il sole splende caldo e ci fa spogliare fino a restare in maglietta.
Affondiamo nella neve che stamattina era dura come roccia, e passiamo con ancor più circospezione sopra i ponti di neve che coprono i crepacci, e che ora sembrano davvero pericolanti.
Sento due guide scambiarsi un commento, “chissà quanto dura ancora quel ponte…”, e un brivido mi attraversa la schiena.
Non solo perché mi rendo conto della pericolosità della cosa, delle conseguenze per le guide e per il loro lavoro, reso ogni giorno più complesso e rischioso dal cambiamento climatico.
Soprattutto perché mi chiedo per quanto tempo le persone potranno ancora vedere la meraviglia che abbiamo visto noi, provare quel brivido, quella soddisfazione immensa all’arrivo, e sperimentare un viaggio di conquista personale e collettiva come quello che sta affrontando Methodos.
Arriviamo alla funivia dopo aver attraversato un ghiacciaio nero ancora più pieno di ruscelli glaciali che all’andata, e finalmente lo possiamo dire: ce l’abbiamo fatta.
Ce l’abbiamo fatta tutti, il che non era scontato.
E ce l’abbiamo fatta nonostante le condizioni in più di un momento sembrassero sfavorevoli.
Volevamo tutti conquistare questa medaglia…ma sapevamo anche che non ci sarebbe stato nessun disvalore, a livello personale né di gruppo, nel decidere che era un limite che non si poteva superare. Eravamo pronti a tornare indietro se le guide ci avessero consigliato di farlo, o a riportare a valle chi individualmente non avesse voluto proseguire.
Mentre scendiamo velocemente volando sopra il paesaggio, Filippo non fa che confermarmi quanto questo fosse anche un suo pensiero.
“Questo è uno dei pochi punti di M4810 che abbiamo trovato in cui il parallelismo tra montagna e business viene meno. O meglio, c’è sempre, ma in montagna c’è una sana consapevolezza del fatto che non tutti gli obiettivi devono essere raggiunti per forza.
Se cambiano le condizioni, se qualcuno non se la sente, non c’è vergogna nel fermarsi, nel tornare indietro. Mentre nel business c’è troppo spesso ancora un approccio estremista, per cui la resa non è ammissibile: se ho puntato un obiettivo ci devo arrivare costi quel che costi, anche a scapito della sostenibilità stessa dell’organizzazione.
Penso che un buon leader invece dovrebbe essere un po’ guida alpina: non solo sapersi adattare, ma fare di più, imparare a rinunciare. Ormai il cambiamento è sdoganato, le aziende sanno che non possono pianificare troppo e devono essere pronte a cambiare rotta, ma a volte rinunciare è la scelta più intelligente. E non sei debole, anzi sei forte proprio perché lo fai, perché sai dire basta quando qualcosa non si può fare senza scendere a compromessi che non fanno bene all’organizzazione o alle persone”.
Un ragionamento che mi sembra più attuale che mai, perché quando ci salutiamo alle macchine e scambiamo le ultime chiacchiere percepisco sentimenti contrastanti.
C’è grande gioia e soddisfazione personale per l’impresa che abbiamo fatto, ma anche una punta di paura per il futuro, forse anche più forte di prima. Perché ora abbiamo toccato con mano cosa significa l’altitudine, cosa significa il maltempo, cosa significa davvero alta montagna.
Qualcuno mette in dubbio la sua preparazione fisica. Qualcun’altro si è scoperto a soffrire il mal di montagna più di quanto avrebbe pensato. Per qualcuno il Monte Rosa, da quaggiù, sembra più che mai il proprio Monte Bianco.
Ma come dicono le guide alpine, non si possono fare valutazioni a caldo: bisogna lasciar passare qualche giorno, decantare.
Citando Bonatti: la vetta più alta è sempre dentro di noi.
Ma ormai sappiamo che possiamo sempre scendere, se mentre scaliamo quelle che sono fuori scopriamo che sono troppo.
E soprattutto abbiamo imparato che un passo alla volta…
Kalipè!