Siamo tutti pigiati nella cabina, in questo venerdì mattina apparentemente come tanti. Chi si appoggia con le mani al vetro, chi si tiene ben saldo alle maniglie che sporgono dal soffitto. Solo che, in questa giornata lavorativa, non siamo in metropolitana a Milano, e non siamo diretti negli uffici di Methodos. Fuori dal vetro non vediamo le buie gallerie della metro meneghina, ma tutt’altro.
Imponenti vette bianche ci circondano, mentre saliamo velocemente di quota. Lasciamo a terra le temperature primaverili e saliamo verso il regno della neve e del ghiaccio perenne, verso i tremila metri della nostra destinazione. Per la precisione, 3.462 metri sul livello del mare. Siamo sulla funivia Skyway Monte Bianco, direzione Punta Helbronner. E tra pochi secondi vedremo qualcosa che ci farà capire ancora di più il significato della nostra spedizione.
Eccolo: appare in tutto il suo splendore, svettante sopra le altre montagne, con la sua caratteristica “doppia cima”. E per qualche istante, cade il silenzio.
È lì, davanti a noi, il nostro obiettivo finale. Quello di cui parliamo da mesi, su cui facciamo ragionamenti e congetture, che sta catalizzando così tanta attenzione ed energie di questo gruppo di consulenti aziendali che stanno iniziando a capire davvero l’entità della sfida alpinistica che li attende.
È la prima volta che la maggior parte di noi lo vede dal vivo, così da vicino. O almeno, la prima volta da quando sappiamo che tra poco più di un anno dovremo essere pronti a raggiungerne la cima.
Quando ho saputo che la prima uscita di allenamento del 2019 sarebbe stata una camminata con i ramponi sul ghiaccio di Punta Helbronner, un brivido mi ha attraversato la schiena.
Era qualcosa di molto diverso da quanto avevamo affrontato fino a quel momento. Neve e ghiaccio sono qualcosa di totalmente differente rispetto ai sentieri sterrati e ai prati fioriti della Val Masino, alle creste aspre della vetta del Monte Fallère, o a qualsiasi cosa avessimo già affrontato. Sarebbe stata la nostra prima uscita con i ramponi ai piedi, la prima in cui indossare i nuovi scarponi Vultur Salewa e l’abbigliamento tecnico invernale, la prima in cui farci un’idea più chiara del tipo di situazione che, effettivamente, incontreremo quando cercheremo di raggiungere il Tetto d’Europa. Ma anche quando, tra pochi mesi, attraverseremo la Vallée Blanche durante la Red Week.
E c’è un’altra prima volta per noi, in quest’esperienza: l’altitudine.
Saliamo dai 1.200 metri di Courmayeur ai 3.400 di questa punta di neve al cospetto del Monte Bianco, e la testa inizia a girare. Le gambe si fanno improvvisamente molli, lo stomaco si stringe in un fastidioso spasmo, e camminare diventa uno sforzo anche per il fisico più allenato.
Per alcuni è solo una leggera sensazione, per altri diventa un pesante fardello. Tra le facce sorridenti ed estasiate in contemplazione del Monte Bianco, se ne vede qualcuna più pallida del solito. Per qualcuno non è la prima volta: Daniele si era sentito male anche anni fa, in tempi non sospetti, quando questo stesso luogo è stato teatro di una convention di Methodos. Oggi la sua espressione tirata e gli occhi bassi ci fanno capire che sta combattendo contro il suo personale demone: la paura di non riuscire ad affrontare l’uscita, di essere costretto a tornare a valle.
Ci dividiamo in gruppi, con l’imbrago già addosso e i ramponi tra le mani, e ci avviamo separatamente verso le neve e il ghiaccio. Uniti gli uni agli altri da una lunga corda, con in testa la nostra guida alpina Arnaud, io e altri 6 ci avviamo lungo il ghiacciaio ricoperto di neve, lasciando indietro il resto del gruppo. E cominciamo a riempirci gli occhi della meraviglia che abbiamo intorno.
Bianco e azzurro. Neve, ghiaccio e cielo. Gli unici colori che ci è dato vedere, punteggiati solo dalle nostre divise blu e gialle.
Ci stiamo dirigendo verso il Colle del Gigante e mentre camminiamo osserviamo alcuni temerari alpinisti che salgono verso l’affascinante Dente del Gigante...sono lontanissimi da noi, dei coraggiosi puntini che mirano a conquistare il pilastro roccioso. Noi proseguiamo sul nostro percorso, attraversando questo ramo della Mer de Glace, che ci fa sentire piccoli.
Camminare in cordata è una sfida a sé stante: da un lato ti vincola, ti lega appunto al resto del gruppo, a passi e andature diverse. Dall’altra ti spinge a un livello nuovo di comprensione e di unione: annulla le differenze, unisce in un unico sforzo collettivo verso uno scopo comune.
Ciascuno pensa alla persona davanti a sé, tiene la corda tesa, regola il proprio passo, si premura che il compagno non la pesti o ci inciampi con quei rasoi che sono i ramponi.
È un modo nuovo di affrontare la montagna, che ci fa sentire più uniti che mai. Paradossalmente anche con gli altri gruppi, nonostante la distanza.
Ma che pone anche delle grosse sfide, come capiamo quando ci troviamo davanti a un muro di neve e ghiaccio e la nostra guida ci guarda sorridente.
“Bene, ve la sentite di salire lì?”, chiede indicandocelo.
Sguardi perplessi seguono la sua domanda. Non è una strada, è un vero muro quasi verticale, luccicante sotto il sole di marzo.
“Ma sei sicuro che ne siamo capaci?”, chiede qualche scettico.
Ma una risposta a questa domanda non c’è, in realtà: si può solo iniziare a scoprirlo.
E così ci apprestiamo alla nostra prima scalata con i ramponi. Parte Arnaud, tirando calci decisi nella neve perché le lame facciano presa, e uno alla volta, lentamente, lo seguiamo. Il destino di ciascuno di noi è legato a quello del compagno di fronte e dietro, e alla sua capacità di non scivolarci addosso.
Siamo a metà del muro quando lo strato di neve che ci aveva sostenuto si sgretola e lascia spazio a duro, scivolosissimo ghiaccio. E in quel momento scatta il panico.
Due persone davanti a me: i ramponi di Andrea non fanno più presa e tutto il suo corpo scivola su Tommaso, e a sua volta lui su di me. Tolgo le mani appena in tempo, per evitare che vengano tagliate dalle lame dei ramponi, mentre i suoi piedi occupano lo spazio dove poco prima si trovavano le mie dita.
Andrea cerca di risalire, scalcia e spinge, ma il ghiaccio non perdona.
Quei pochi secondi si allungano all’infinito, mentre chi è sopra si sforza di aiutare e sostenere i compagni sotto, e noi a valle cerchiamo di non scivolare a nostra volta.
Finalmente un rampone si incastra con un sonoro “craak” nel ghiaccio, e la tragicomica scivolata si arresta.
Ricominciamo a salire, ora più cauti e concentrati, e dopo pochi passi, che però sembrano non finire mai, le mie mani afferrano il bordo superiore del muro di neve e ghiaccio.
Ce l’abbiamo fatta!
Il cuore batte all’impazzata, e un sorriso si allarga sul viso di tutti mentre ci stringiamo in un mezzo abbraccio collettivo, tra bastoncini da trekking e corde.
Abbiamo imparato un’altra grande lezione, di montagna ma anche di lavoro in team: con i ramponi si è tutti legati da un unico filo conduttore, e muoversi in maniera corale è essenziale.
Bisogna procedere con cautela, un passo alla volta, facendo attenzione a non uscire dalla traccia di chi ci precede. È un lento percorso in progressione, dove chi ha aperto la strada non lo fa solo per sé ma per tutti, e chi segue ha il dovere di fare lo stesso.
Uno alla volta, anche gli altri gruppi della spedizione arrivano al muro e lo affrontano. Da sopra facciamo il tifo per ognuno dei partecipanti e aiutiamo come possiamo.
Tutti si scontrano con le proprie paure prima ancora che con il ghiaccio, su questi pochi metri di scalata quasi verticale. E tutti, uno per uno, arrivati in cima hanno un sorriso che non gli avevo mai visto prima.
È quello che succede quando si supera lo scoglio della paura, si affronta il cambiamento e ci si ritrova a guardare indietro le difficoltà che questo ha permesso di superare.
È quello che ci sta succedendo in questa spedizione, uscita dopo uscita, passo dopo passo. Ogni gradino ci porta più vicini al Bianco, ma anche più addentro nel processo di cambiamento che stiamo affrontando. E quello che abbiamo fatto oggi, proprio all’ombra della grande montagna che da mesi ormai popola il nostro immaginario, nel bene e nel male, ci dà una forza incredibile.
Lo leggo nei loro sorrisi, nei loro sguardi. Per la prima volta, anche i più scettici hanno un luccichio negli occhi. È la potenza di un pensiero: “ce la possiamo davvero fare!”.
E quando, poco dopo, incrocio anche lo sguardo di Daniele, provato ma fiero, sorrido.
Ha affrontato l’intero trekking superando anche la paura della sconfitta che si portava dietro dall’ultima volta, e che lo aveva condizionato dal momento in cui aveva messo piede in funivia. Lo guardo esultare con le ultime forze, e un pensiero di gioia mi riempie la mente.
Eh sì. Ce la possiamo fare, davvero.