Siamo arrivati al momento in cui il gioco si fa serio. Abbiamo fatto belle escursioni, ci siamo divertiti, abbiamo scoperto i nostri limiti e abbiamo provato a superarli.
È stato bello. Ma ora qualcosa sta cambiando.
Le prossime uscite sono quelle che segnano il punto di svolta nel percorso di M4810, per tanti motivi. Con l’arrivo della Red Week si avvicinano anche due delle sfide più grandi che questo gruppo affronterà nel 2019, il Petit Mont Blanc e la Vallée Blanche. Quelle che saranno anche decisive per valutare chi proseguirà l’avventura verso l’alto e chi invece si impegnerà dal basso.
Le sfide di entrambi i gruppi saranno epiche e il cambiamento ugualmente necessario.
Ma chi deciderà che vuole arrivare fino in fondo, anzi fino in cima, che vorrà sfidare il Monte Bianco, dovrà prendere delle decisioni importanti proprio nelle prossime settimane. E, in un modo o nell’altro, le prossime uscite saranno l’ago della bilancia per tante persone.
Forse è per questo, perché abbiamo tutti lo sguardo rivolto alle sfide della Red Week, alle domande e alle risposte che dovremo darci, che la Grigna non ci è sembrata una prova temibile.
In effetti, con i suoi 2.410 metri il rifugio Brioschi, la nostra meta in questa nuova giornata di cammino e cambiamento, non faceva scattare l’allerta.
Nemmeno quella frase che si sussurrava nelle macchine, mentre attraversavamo i paesini del lecchese per raggiungere il Colle del Balisio, il nostro punto di partenza: “1.600 metri di dislivello”.
Un’altra cosa che stiamo scoprendo sempre più in questo percorso, tanto sulla montagna quanto sul cambiamento, è il concetto di relatività.
Relatività della distanza, quando guardi il rifugio in lontananza e ti chiedi quanto tempo ci metterai a fare quelli che sembrano pochi metri.
Relatività della fatica, quando a un certo punto il sentiero sembra finalmente appianarsi e pensi “il peggio è passato”. Ma non hai mai ragione.
Ma anche la relatività dei propri limiti, che sembrano una linea netta e ben definita quando ti ci avvicini. E invece ti accorgi che si possono inspiegabilmente spostare non appena ci arrivi sopra.
Lezioni di vita, più che di alpinismo. E come al solito, la montagna era pronta a insegnarcelo nel modo più duro.
Partiamo carichi, pochi ma buoni. Siamo un gruppetto di una quindicina di persone, meno del solito, purtroppo, ma ben motivati. Anche perché è la prima volta che abbiamo un supporto tecnico mica da ridere: sono arrivati gli orologi Garmin, che ci aiuteranno a tracciare questa spedizione e il cambiamento che porta, anche nelle sue variabili più pratiche.
La giornata promette di essere di quelle stupende, la prima di sole e caldo dopo questo triste maggio piovoso che ci ha fatto venire voglia di scrollarci di dosso l’inverno. Con noi ci sono anche due persone del WWF, per dare avvio alla nostra bellissima collaborazione come loro partner.
Saliamo tra faggeti e betulle, orme di volpe e teste curiose di marmotta, tutti gli elementi unici di questo ambiente che i nostri nuovi compagni di viaggio ci indicano.
Saliamo, e sembra quasi che non si senta la fatica. Il sentiero si inerpica verso le montagne ma, tra una chiacchiera e l’altra, tra una foto e un avvistamento dei selvatici abitanti della montagna, le ore passano e i chilometri pure.
Il rifugio Brioschi è in vista. Poco più che un puntino in cima a una montagna, ma quella visione che è in grado di rendere concreto un obiettivo. Spingiamo ancora un po’ sulle gambe. Ancora un altro po’.
Ma il sentiero non molla. Si arrampica inferocito verso la vetta, senza pietà. Le gambe cominciano a cedere, il fiato per le chiacchierate scarseggia, cala un silenzio tombale.
L’eccitazione iniziale si trasforma lentamente in sfinimento.
Un senso di inadeguatezza davanti all’enormità della sfida, che ci annebbia come le nuvole basse che iniziano a circondarci.
La rabbia si impossessa di alcuni: “ma come è possibile? Nonostante tutte le corse, l’allenamento, gli sforzi, come è possibile che io non ci riesca?”.
Per qualcun altro cresce un sentimento di sfiducia: “ecco, temo che questo sia il mio Monte Bianco”.
Altri, semplicemente, tacciono e sbiancano.
Per tutti, comunque, il limite di sopportazione si materializza a pochi chilometri di distanza. Un piccolo bivacco scavato nella roccia, poco più che una tettoia. Manca poco, molto meno che al rifugio. Buona parte del gruppo lo guarda come la propria meta finale, come l’ultimo sforzo umanamente consentito dalle proprie forze. È come una grossa linea rossa tracciata per terra, con scritto sopra “oltre questo non ce la posso fare”.
Strana cosa, questi limiti. Funzionano in maniera particolare, quasi elastica. Come un miraggio, della cui evanescenza ti rendi conto solo quando ti avvicini.
Sono nella nostra testa, più che nelle nostre gambe o nei nostri polmoni.
Poi c’è un altro tema, che è quello di sapere capire quando è il caso di superarli e quando no. Ma questa è un’altra storia…
Fatto sta che ci trasciniamo fino al bivacco. Membra stanche collassano sulla nuda roccia, le mani corrono alle barrette energetiche e alle borracce Salewa. Ho la sensazione che se non fossero in alluminio super leggero non riusciremmo neanche a sollevarle, tale è il livello di stanchezza.
Si inizia a formare il gruppetto di quelli che vogliono tornare a valle, ma poi succede qualcosa.
Non so bene cosa sia, nessuno lo capisce davvero.
Sarà che guardiamo la vetta, e vediamo il sentiero che ci ha fatto tanto penare piegarsi davanti alla nostra volontà e serpeggiare vagamente pianeggiante fin quasi al rifugio. Sarà che la pausa è un elemento psicologico fondamentale al raggiungimento di ogni tipo di impresa.
Sarà anche lo stimolo del gruppo, quella forma di forza ancestrale che sembra tramandarsi attraverso l’etere tra individui accomunati da un unico obiettivo.
Fatto sta che qualcosa succede. Bastano pochi secondi, nessuno ha ben chiara questa dinamica, ma quando ci alziamo ci incamminiamo di nuovo tutti verso la vetta.
È qualcosa di incredibile da raccontare, ancor più straordinario da vivere.
Riprendiamo a salire, e di nuovo ci scontriamo con il concetto di relatività. Questa volta relativo all’idea di “quasi pianeggiante”. In realtà gli ultimi metri sono una salita verticale, di quelle che ti fanno rimpiangere qualunque decisione coraggiosa tu abbia preso, sulla cresta della montagna. L’unica consolazione è la vista incredibile sul famoso ramo di Lecco del lago di Como, che funge anche da scusa per accasciarsi a terra ogni tanto e fare qualche foto.
Un ultimo sforzo. Passo-respiro, passo-respiro, passo…
Gli scalini del rifugio sembrano l’ultima cosa che riusciremo a toccare prima di svenire, eppure ce la facciamo. Ci siamo: 2.410 metri, 1.600 di dislivello, 337 piani di scale secondo Garmin, e più di un paio di gambe che ormai si fa fatica a sentire. Ma ci siamo!
Il problema è che il concetto di “arrivo” è un’altra cosa relativa. Perché poi c’è il rientro.
1.600 metri di dislivello significano in realtà 3.200 totali, e spesso la discesa è peggio della salita. È nella discesa che la stanchezza mentale e fisica si sente di più. E quei passi che all’andata ti sembravano poca roba, quasi volati, quando li percorri al ritorno ti sembrano non finire mai.
Dopo quello che pare un tempo infinito, che ognuno percorre con i suoi ritmi, chi sorprendendosi di quello che è riuscito a fare, chi spergiurando che non lo farà mai più, ci ritroviamo a valle. Davanti alla birra della vittoria, uno dei momenti più ambiti da ogni alpinista in erba.
Parte il solito gioco molto serio del debrief: ognuno dà il suo feedback, una parola, una frase.
Qualcuno sceglie “consapevolezza”, qualcun altro proprio “limite”: da riconoscere o da superare. Altri ancora nominano la sorpresa; qualcuno tira fuori il tema del silenzio, quello che è calato nel momento di massimo sforzo.
Per me, lo avrete capito, la parola è “relatività”. Ognuno ha la sua.
Per tutti, più di ogni altra cosa, questo è il momento delle grandi domande. Manca molto poco a quando dovremo trovare anche le giuste risposte.