Mentre cercavo di far tornare il battito cardiaco a una velocità normale e di riprendere a respirare senza affanno, pensavo a chi era rimasto indietro quel giorno.
Punta Lechaud si stava rivelando più tosta del previsto. Dopo il sollievo iniziale del cambio di programma rispetto al più alto Petit Mont Blanc, ci eravamo presto resi conto della relatività del concetto di fatica e dello sviluppo in lunghezza molto maggiore che ci era toccato. Io personalmente ero stremata e i compagni che avevamo gradualmente lasciato lungo la strada, perché tornassero indietro con una guida, testimoniavano il fatto che non ero la sola.
Tra loro, c’era anche Sabrina: una delle donne più combattive della spedizione, che con la sua ironia sprezzante, il suo modo diretto e la sua testardaggine superava ogni fatica e finora era riuscita ad arrivare anche sulle cime più ardue.
Poi però, poco dopo, proprio tornando giù dalla vetta, succede qualcosa di inaspettato: incrociamo un gruppo che non doveva esserci, quello delle persone che erano rimaste indietro!
E proprio dietro la guida, c’era lei: Sabrina.
Felice di vederli lì, lancio un incitamento da qualche metro di distanza e il suo sguardo si alza, incrociando il mio. Per un istante mi fulmina, come se la carica esplosiva per la fatica che sta facendo si rivolgesse brevemente a me. Poi si rilassa, sorride e il suo sguardo si schiude in uno di sfida e di conquista. Lo stesso che potrei vedere sul volto di una leonessa nella savana.
Sono passati mesi da quell’uscita, ma quando mi ritrovo a parlare con Sabrina di quest’avventura che stiamo vivendo e che si avvia agli strappi finali[1] , capisco di aver colto nel segno.
Quello sguardo era la rappresentazione di uno dei grandi momenti di passaggio che ha vissuto in questo percorso di scoperta di sé, degli altri e di tutte le più profonde declinazioni di ciò che fa da molti anni: il change management.
“Punta Lechaud è stato davvero uno stacco forte. Se c’è un prima e un dopo, quello è uno di quei momenti che sicuramente hanno segnato il passaggio. Con il mio modo dissacrante, ironizzando sulla fatica e su ciò che stavo facendo, quasi per renderlo mentalmente più facile, credevo di poter arrivare ovunque. Dovevo tirare fuori quel sarcasmo che mi rende me stessa, anche lassù, e ce l’avevo sempre fatta.
Ho iniziato questo percorso con una positiva e fiduciosa incoscienza. Non in senso negativo, nel senso che mi sono affidata, fidandomi io ciecamente di questa società, delle sue persone e della nostra capacità di affrontare le sfide. Tanto la montagna non era il mio ambiente, io sono una lupa di mare. Né mi piaceva l’alpinismo come sport, in quanto ex pallavolista amo più gli sprint, la ricerca veloce del punto, della gratificazione immediata.
Insomma, ho preso questa sfida semplicemente come una palestra di Mindset, un laboratorio di tecniche di change che ci permettesse di studiare e mettere in pratica innovazioni nel settore, per noi e per i nostri clienti.
Questo da una parte è stato bellissimo, perché mi ha portata a fare tutte le scoperte mano a mano, gradualmente, sempre con un senso di grande sorpresa per ciò che scoprivo fuori e dentro di me.
Dall’altra, certe volte mi ha messo di fronte a sorprese anche negative. Una di esse è stata proprio Punta Lechaud.
Credevo di non farcela, di aver superato un mio limite fisico, mi stavo proprio sentendo male. Volevo solo scendere.
Anche la Grigna era stata una situazione simile. A livello di fatica, probabilmente anche più tosta. Ma in quell’occasione, la forza di volontà era bastata: la testa ci voleva arrivare e ha trascinato il corpo persino oltre i suoi stessi limiti. Invece a Punta Lechaud c’era qualcosa di diverso.
Forse non era né l’altitudine, né la distanza, né qualche parametro oggettivo. Ero io a essere diversa. A ogni uscita mi sono sentita come se fossi influenzata da fattori ignoti, a volte mi veniva tutto facile, altre mi sentivo debole, più stanca per il lavoro o per i pensieri, pur essendomi allenata ancora di più. Credo che a ogni uscita, anche se fisicamente eravamo tutti insieme, abbiamo scalato ciascuno una montagna diversa, in base ai propri pensieri, alle proprie attitudini, al proprio personalissimo momento.
Ecco, per me Punta Lechaud è stato quello più basso. Ma anche quella si è trasformata in una sorpresa positiva, nel ‘punto di passaggio’ che mi ha permesso di fare uno step in più. Ed è stato il fatto di scoprire che, dove non arrivo io, arriva il gruppo.
Che la forza del team diventa la mia, a un livello molto profondo. Quando mi hanno raggiunto gli altri, non solo sono stata contagiata da quella forza, ma ho trovato il mio passo. Quello davvero giusto per me, che mi ha permesso di non affaticarmi e di continuare. Fino alla vetta a cui avevo già rinunciato. E ho capito una cosa fondamentale: l’ultimo pezzettino, il vero cambiamento, la vetta, lo fai solo se hai intorno le persone giuste”.
Eccolo, quello sguardo da leonessa di montagna che ho visto lassù. Inizio a mettere insieme i tasselli di questa personalità così forte che mi trovo davanti.
Le chiedo quale sia quella cosa che la spinge ad andare avanti. Cosa la porta in vetta anche quando ha scritto in faccia che invece di quella faticaccia preferirebbe essere sulla sua amata barca a osservare il mare? È una sfida con se stessa, con la montagna, con gli altri?
“Sfida? Non lo so, credo nessuna delle tre. Più che altro è curiosità. Un modo molto onesto di conoscermi meglio, di scoprirmi in condizioni estreme, condizioni in cui non ero mai neanche lontanamente stata. E il mio problema al riguardo, non è il superamento di un ipotetico limite, ma una questione di onestà: non voglio rischiare di tradire me stessa mentre cerco una consapevolezza di me in un contesto nuovo. Se arrivo in cima per testardaggine e poi sto male, insomma, non ho fatto del bene a nessuno.
È un po’ quello che mi ha fatto paura in Vallèe Blanche. La cresta finale mi ha talmente emozionata che, quando sono arrivata alla fine, ho reagito come se avessi trattenuto il fiato per tutto il tempo: sono scoppiata. Letteralmente, non solo emotivamente!
Sono scoppiata in singhiozzi. Non era paura ma emozione, fatica, ansia, stupore, senso di responsabilità, il tutto provato nello stesso momento e su una cresta a quasi 4.000 metri.
Quella volta sono riuscita a trattenerlo, ma mi preoccupa l’idea che possa succedere di nuovo, magari proprio sul Bianco. Che possa esplodere prima di arrivare in cima e creare una situazione negativa, per me ma soprattutto per gli altri che sono legati a me”.
Il senso della squadra, in lei, è molto sviluppato: tutti i suoi ragionamenti ci riportano alle dinamiche di team. Si vede che viene da uno sport come la pallavolo.
“Paradossalmente, quella stessa sensazione di unione fortissima con la squadra l’ho ritrovata qui, ed è una delle cose che mi piacciono di più del progetto. Abbiamo costruito dinamiche di team nell'ambiente della montagna che hanno una profondità che non puoi vedere nel quotidiano, uno specchio sulla complessità e purezza della persona.
Ma non è l’unico parallelismo con la pallavolo che vedo: c’è anche il tema dell’allenamento, mentale e anche fisico. Di una fatica che ti eleva e ti serve poi nella vita, insomma.
È come la sensazione di rinascita dopo la rottura muscolare: i muscoli fanno male mentre si ricostituiscono, prendendo l'energia dal resto del corpo. Quando il processo sarà finito, l’uno e l’altro saranno più forti di prima!
Al contrario della pallavolo però, una cosa che mi crea difficoltà è che qui non c'è il punto: manca la gratificazione immediata.
La montagna, al contrario, allena l'auto-motivazione. La conquista un passetto dopo l'altro, la pazienza.
Quella cosa che a me manca completamente, insomma, e che qui sto imparando a forza.
Matteo all’inizio per spronarmi mi diceva ‘vai piano, metti un passo davanti all'altro, asseconda i tuoi tempi’. Io sbuffavo come mio solito, ma poi ho scoperto che era vero. Mi ha dimostrato anche questo, Punta Lechaud.
Anche nel lavoro è fondamentale, credo sia uno degli insegnamenti più forti che mi sto portando a casa: quante volte capita di aver lavorato duramente su un progetto, averci investito tanto, e poi si blocca o qualcosa va storto? Lì devi essere in grado di motivarti da solo e andare avanti.
Ecco quanto serve questo allenamento sui progetti che facciamo: è come se ti stessi nutrendo di un'energia collettiva, che poi metti a disposizione in altri ambiti. La devi immagazzinare per quando, durante il change, arriveranno momenti di conflitto, di cedimento, di paura. Aver vissuto una cosa del genere ti aiuta ad essere un advisor migliore perché lo sai trasmettere, comunicare.
Ecco, il fatto di sperimentare tutto ciò su di noi è fondamentale, per come la vedo io; è l’essenza del “metodo Methodos”: non puoi accompagnare le organizzazioni nei grandi challenge se tu per primo non ti conosci e non li hai saputi affrontare. Si tratta di rispetto nei confronti degli stakeholder, prima di tutto”.
Arriva qualcuno a interrompere la nostra chiacchierata: è tardi, ci dobbiamo salutare. Mentre mi allontano, però, mi colpisce un’ultima domanda che le voglio fare:
qual è quindi la tua scelta? Proverà o non proverà a scalare il Monte Bianco?
Ma è troppo tardi, l’hanno già presa per un braccio per riportarla “a valle”, tra le questioni di lavoro e le incombenze quotidiane. Il nostro momento di riflessione personale è finito.
Non risponde alla mia domanda, però mi guarda e mi riserva quello sguardo acceso che ho già visto in montagna.
Sulle sue labbra un sorriso enigmatico, quello di una moderna Gioconda in un contesto aziendale.
Eccola lì: una risposta che non è una risposta e non vuole esserlo. Non ancora.