Quando suona la sveglia, quasi nessuno si trova impreparato. La maggior parte degli occhi sono già spalancati e lo sono stati per gran parte della notte, nonostante la comodità dei letti. È uno dei primi effetti che l’altitudine ha sul corpo, quando non ci si è abituati. Se poi ci mettiamo che il Genepy è stato particolarmente apprezzato da molti di noi dopo la cena, il quadro è chiaro!
Gli occhi ancora socchiusi di quasi tutti i presenti a colazione dicono chiaramente che è stata la stessa cosa per tutti, e che molti avrebbero preferito restarsene a letto che affrontare la scalata alla cima di una montagna all’alba. Soprattutto di questa montagna: il sentiero non è da tutti, con un grosso dislivello da affrontare, e una volta raggiunta l’agognata vetta ci aspetta anche una lunga cresta di via ferrata, da affrontare in cordata.
Ovviamente l’agitazione è tanta. Molti non sanno cosa aspettarsi esattamente, e questo contribuisce ad accrescere il timore. Quando la guida, la sera prima, ci ha mostrato come indossare un imbrago da arrampicata, mormorii inquieti hanno percorso i presenti. “Via ferrata”, “cresta”, “cordata”...non sono ovviamente termini familiari a dei consulenti di Change Management, abituati soprattutto alle vette dei grafici! Per questo, questa volta, siamo organizzati in maniera precisa: tutto il gruppo proverà a raggiungere la prima tappa, un lago glaciale con una splendida vista sulla vallata. Da lì, solo chi se la sentirà partirà verso la vetta, mentre una delle sei guide che ci accompagnano resterà con chi si ferma.
Già a cena molti dei colleghi hanno iniziato a prendere le distanze dall’impresa: “io penso di fermarmi al lago”, “non credo di riuscire ad arrivare in cima”, “io torno in rifugio a fare la spa!”, erano i commenti principali. Per alcuni ci sono anche dei limiti fisici da prendere in considerazione.
Qualcuno, ad esempio, ha problemi non indifferenti con le altezze: “i miei figli ancora mi prendono in giro per quella volta che, in uno di quei ponti trasparenti panoramici, ho dovuto sedermi per terra in mezzo a tutti perché non ce la facevo a restare in piedi: mi tremavano le gambe e mi girava la testa...se mi capita così domani, cosa faccio? Dove mi siedo, sulla cima di una montagna?!”. I compagni al tavolo annuiscono silenziosi: quasi tutti hanno paura di qualcosa di simile, in fondo.
Finita la colazione, ci spingiamo fuori dal rifugio nella luce del sole già alto nel cielo, convinti di trovarci in una calda giornata estiva, ma...sorpresa! Un vento gelido ci investe con tutte le sue forze. I soft-shell di Salewa e il resto dell’attrezzatura saranno davvero fondamentali per questa uscita, un ottimo primo test della loro qualità! Ci incamminiamo sul sentiero battuto dal vento glaciale, chiacchierando e guardandoci intorno, felici che la salita non sia particolarmente impegnativa. In effetti la guida ci ha rassicurati, prima di partire: “tranquilli, è quasi tutto in piano con giusto un po’ di salita alla fine”.
Abbiamo già imparato che le definizioni delle guide alpine non sono le stesse delle persone di città, ma nonostante siamo preparati restiamo tutti a bocca aperta quando arriviamo a quel “po’ di salita” che ci avevano prospettato. È un muro verticale! Così verticale che il sentiero sale in un precisissimo zig-zag per qualche centinaio di metri. E la nostra prima tappa è proprio lassù. In fila indiana, concentrati e affannati, iniziamo a salire. Qualcuno prova a chiacchierare, ma ci rinuncia poco dopo. Questa volta non si scherza!
Sembra che ci voglia una vita a percorrere quei pochi metri, ma quando i primi arrivano alla fine la bocca si spalanca per la sorpresa. Un bellissimo specchio d’acqua riposa davanti a noi, blu come solo un lago di montagna sa essere, incorniciato dalle vette bianche intorno.
Qualcuno si riposa, qualcun altro mangia una barretta energetica. Un gruppetto si avventura fino alla sponda, qualcuno testa persino la temperatura dell’acqua. Passano i minuti, e la maggior parte del team però ancora non si vede: ci stanno mettendo un po’ più di tempo. Non sarebbe un problema, se non fosse che il vento freddo continua a gelare il sudore sulla schiena di chi aspetta.
“Forse dovremmo andare, senza aspettarli ancora. Rischiamo di ammalarci e raffreddare i muscoli”, suggerisce qualcuno. “Nel gruppo ci sono almeno 2 o 3 velocità diverse, è normale, dobbiamo prenderne atto”. Ha ragione da un lato, ovvio. Ma dall’altro, qual è il punto di tutto questo, se non di rendere tutti partecipi? Di condividere la fatica come una squadra, e permettere al maggior numero di persone possibili di raggiungere il successo? La risposta è no, questa volta. Questo obiettivo è di tutti, e tutti hanno diritto di raggiungerlo insieme.
E infatti, di lì a poco anche gli altri arrivano, stremati ma felici. La maggior parte di loro non pensava nemmeno di arrivare fin qui, quando ha visto il muro che doveva superare! Ed essere quasi tutti insieme è ovviamente una grande gioia.
Foto di rito, e si riprende a salire. Questa volta, dividerci in gruppi è obbligatorio: una decina di persone per ogni guida, legate tra loro con una corda, si avviano verso le rocce. Il sentiero ora è molto diverso, i piedi iniziano a necessitare il supporto delle mani, e guardare di sotto comincia a creare un po’ di vertigine in chi non è abituato! In certi punti, l’unica cosa tra la salita e la caduta è una scala a pioli di metallo con una catena: la famosa via ferrata.
“Non guardare giù, concentrati! Guarda le tue mani, focalizzati sul sentiero. Punta a dove stai andando, non da dove sei venuto. Forza, su!”, ci incitano le guide. E, in effetti, un passo dopo l’altro, una tirata di corda dopo l’altra, saliamo. Il fatto di essere tutti legati insieme è terrificante ma dà anche un grande senso di fiducia: è più che mai una metafora del lavoro di squadra, del muoversi all’unisono. Si avanza solo se tutti sono pronti, il gruppo intero si ferma se un membro è in difficoltà. Non è solo solidarietà, è qualcosa di più: è nell’interesse di tutti che la cordata intera non trovi intoppi!
E poi, senza quasi accorgercene, tanto siamo concentrati sui piedi e sulla corda, d’improvviso ci siamo: siamo in vetta! Un gruppo, e poi un altro, e un altro ancora, finché tutta la cima del monte Fallère, a 3.061 metri, è piena dell’azzurro e del giallo delle giacche Salewa brandizzate M4810. Siamo a TREMILA METRI! Il primo Tremila!
Mi guardo intorno e mi scoppia il cuore di orgoglio: ci siamo praticamente tutti! Anche chi la sera prima era più scettico, anche chi aveva paura di non farcela, anche chi soffre di vertigini. Proprio a chi mi aveva raccontato di avere problemi con le altezze chiedo come stia andando, e mi risponde con un sorriso a trentadue denti:
“Bene, benissimo! All’inizio, quando mi sono guardata intorno, ho sentito che la testa iniziava a girare, e sono andata un po’ in panico. Ma poi mi sono concentrata, ho guardato la vetta, ho puntato la meta, e ci sono riuscita! Sentirmi legata con la corda a tutti i miei compagni, poi, mi ha dato una grande forza. Erano tutti con me”.
La sorpresa più bella? Eccolo lì: bianco e svettante, si erge inconfondibilmente tra tutte le vette che ci circondano a 360°. Il Monte Bianco. La nostra vera meta, la destinazione di questo viaggio, con i suoi 4.810 metri che danno il nome al nostro ambizioso progetto. Il Mont Fallère è solo il primo di una lunga serie di Tremila, che ci porteranno gradualmente ai Quattromila, e che infine ci permetteranno di raggiungere l’obiettivo ultimo: il Tetto d’Europa! Non sarebbe possibile pensare di farcela senza tutto il percorso di preparazione, senza passare per le singole tappe. Ognuna aggiunge qualcosa, ognuna ci porta un po’ più in alto, ma anche più in profondità. Per questo non esiste il concetto di “fallimento” in questa avventura: ogni volta si migliora, anche quando sembra che si sia ottenuto meno di quanto ci si era prefissati, si impara comunque qualcosa per la volta successiva.
Per questo tutti dovevano arrivare al lago, ma non tutti necessariamente alla vetta. Perché l’importante è il viaggio, percorrere insieme le tappe, affrontare insieme la sfida, non arrivare tutti a destinazione.
E mentre siamo lassù, e nelle fotografie “tocchiamo” con le dita il Monte Bianco, questo sembra più vero che mai.